Nel suo ultimo libro di versi – Barlumi di storia, uscito nel 2002, solo due anni prima della morte – Giovanni Raboni inserisce una prosa nella quale rievoca l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, il 22 novembre 1963, l’«inarrestabile corsa» della limousine presidenziale e lo scatto della moglie Jacqueline, «china in un gesto più materno che tragico sul corpo quasi invisibile dell’assassinato». Mentre arriva la tremenda novità, Raboni sta partecipando alla riunione di redazione di una rivista nata l’anno prima, «Questo e altro», le cui figure di riferimento sono Niccolò Gallo, Dante Isella, Geno Pampaloni, e più tardi Angelo Romanò, reduce dell’«Officina» pasoliniana. A portare la notizia dell’attentato è però la personalità più prestigiosa del gruppo, Vittorio Sereni. Sereni è anche l’estensore del primo editoriale non firmato della rivista (ma si vedano i materiali e le considerazioni che Patrizia Valduga ha pubblicato sul sito giovanniraboni.it, che rendono in effetti verosimile l’ipotesi che lo stesso Raboni abbia avuto una parte importante nella stesura dell’intervento).
È chiaro che la collisione fra il ragionamento sulla Letteratura e i venti avversi della Storia che spiravano da Dallas diventa una specie di simbolo evocativo dell’anima della rivista: doveva essere, scrive ancora Raboni citando proprio quell’editoriale, «una rivista in cui la letteratura venisse riconosciuta e difesa non soltanto nella sua specificità e autonomia, ma anche come “una forma di conoscenza del mondo” e “un luogo della verità umana”», insomma il punto di raccordo fra il “questo” e l’“altro” del titolo.
Dopo quasi sessant’anni si può tornare a ripercorrere quell’avventura durata 8 numeri, usciti fra il 1962 e il 1964, grazie alla scelta antologica allestita – e riproposta nella sua veste grafica originaria – in: Arrigo Lampugnani Nigri, «Questo e altro» Storia di una rivista e di un editore, a cura di Valeria Poggi (introduzione di Alberto Bertoni, Stampa2009, pp. 206, € 23,00). A cominciare proprio dal pezzo anonimo citato, per arrivare a diversi saggi che impreziosirono la parabola del periodico, da un raffinato morceau manzoniano di Dante Isella (Il “come se” del Manzoni) al Guido Piovene lettore di Saba (Il doppio fondo di Saba); per passare naturalmente ai larghi assaggi di poesia proposti dalla rivista, fra cui spiccano il Luzi di un drappello di liriche di Nel magma (num. 4) e il Pasolini di Una disperata vitalità (num. 6-7).
Ma il volume è arricchito anche da una cinquantina di pagine di Documenti estratti dall’archivio di Lampugnani Nigri, l’editore-mecenate che permise il varo dell’impresa, e che in quegli stessi anni pubblicava anche la prestigiosa «aut aut» diretta da Enzo Paci. Di rilievo sono soprattutto i frammenti di carteggi offerti da Lampugnani Nigri («i soli sparuti superstiti – si legge, con qualche sussulto, nella sua Premessa – scampati a un rovinoso trasloco di tanti anni fa»). Grazie a questi si può ascoltare la voce dello stesso Paci, o di Pampaloni – peraltro rimproverato da Sereni per il suo impegno a intermittenza – o si può assistere al più rapido scambio fra l’editore e Giacomo Manzù, che firmerà il logo di Lampugnani Nigri, la civetta che compare a partire dal terzo numero di «Questo e altro» («Sta pensando alla mia ‘civettina’? È inutile che le ripeta che ci conto e quanto tengo ad averla», scrive l’editore all’artista il 3 luglio del ’62). O ancora, si può aggiungere un altro tassello al grande corpo a corpo del nostro secondo Novecento poetico, quello fra Sereni e Franco Fortini, fiancheggiatore esterno, energico e insieme dubbioso, della rivista (vedi un disincantato Fortini a Sereni, il 14 aprile 1963, su come sia difficile alleviare «la rabbia di non aver lasciato, come generazione, un graffio, un segno sulla faccia del nostro mondo. Chi lo ha fatto sono stati gli altri»).
Non è un caso, comunque, che Lampugnani Nigri apra la Premessa di questo volume ricordando anzitutto la sua amicizia con Raboni. Sia o non sia (anche) il ghost writer del primo pezzo di Sereni, Raboni è probabilmente il vero protagonista, il «deus ex machina della rivista», come afferma Salvatore Veca in un’intervista qui allegata). Del resto anche il Raboni poeta è legato a doppio filo a Lampugnani Nigri. Del Rab – come lo chiama, confidenzialmente, il suo amico-editore – Lampugnani Nigri pubblica in effetti Il catalogo è questo (1961), primo nucleo del futuro e fortunato Le case della Vetra (1966), e nell’81 il Quaderno in prosa (e infatti scrive, molto significativamente: «Raboni è stato l’inizio e la fine della mia casa editrice»). L’esperienza – e l’artifex – di «Questo e altro» sono dunque un’ottima specola anche per osservare più attentamente gli inizi di uno dei maestri del secondo Novecento. Nel ’67 esce – ancora una volta per i tipi di Lampugnani Nigri – la plaquette intitolata Gesta Romanorum, che trent’anni dopo, nell’edizione Garzanti di Tutte le poesie, Raboni presenterà come il ‘resto’ di una sua antica raccolta perduta e mai pubblicata.
Sul problema del primo libro di Raboni – pur mai approdato, in quanto tale, alle stampe – si sofferma ora un bello studio di Luca Daino, I «bagliori degli spigoli» Giovanni Raboni tra modernismo e fenomenologia, con uno scritto di Rodolfo Zucco e una postfazione di Dino Gavinelli (Mimesis, pp. 217, € 18,00). Daino si impegna anzitutto a mettere ordine nella stratificazione della scrittura del primo Raboni, considerando Gesta Romanorum come uno «sfuggente spazio in cui confluiscono gli esordi raboniani», una nebulosa fatta di testi in parte inediti, il cui punto d’inizio è addirittura il 1949. La messa a fuoco comincia, in particolare, dal ritrovamento del dattiloscritto originale del libro, datato 1953, e scovato fra le carte di uno dei phares di Raboni, Carlo Betocchi, il cui Fondo è conservato al Gabinetto Viesseux di Firenze. Ma Daino non ha qui soltanto il merito del lavoro di prima mano, perché le sue nuove, concrete acquisizioni sono subito messe in circolo con una riconsiderazione profonda della cultura poetica raboniana, diciamo con la sua «posizione». Ecco allora la sua poesia – pur con le dovute attenzioni – proiettata all’interno di una ‘genealogia modernista’. Ed ecco scendere, fra gli interlocutori e modelli del primo Raboni, proprio le quotazioni di Sereni, e salire invece quelle di Ezra Pound (in perfetta concordia, peraltro, con lo stesso Betocchi, che proprio in un suo intervento su «Questo e altro» alludeva alle «antiche esperienze di derivazione poundiana» del giovanissimo poeta).
Importante è poi il riconoscimento pieno di un altro phare – ma stavolta nostrano – rimasto sin qui molto più in ombra, nella storia degli studi, ovvero Umberto Saba. E aggiustamenti più circoscritti ma notevoli riguardano Baudelaire, o Eliot, insomma il vario insieme del «cantiere» raboniano. Una miniera cui Daino si dedica anche nella seconda parte del suo studio, teso stavolta a misurare l’apporto decisivo dell’educazione fenomenologica di Raboni (il che vuol dire fare di nuovo i conti, anzitutto, con il citato Paci).
Colpisce ancora di più, una volta attraversate le pagine di questo libro, la precoce maturità intellettuale di Raboni. Ma soprattutto colpisce come questa si unisca inestricabilmente a una vivacissima prensilità. Si potrebbe dire che Raboni nasce mescolando: amalgamando il portato della tradizione italiana – Saba, appunto, o l’ermetismo, o certe memorie operistiche – con, per esempio, l’oggettualità e la verve ragionativa della tradizione anglosassone (che all’altezza dei suoi primi passi non sono certo un patrimonio scontato e diffuso). Anche da qui – da questa convivenza di spinte molto diverse fra loro, dall’attitudine a cucire insieme, appunto, il «questo» della poesia e l’«altro» delle cose – viene la sua mai retorica intelligenza. Non si può che sentirne tutta intera la nostalgia, qui dove non ci sono più «vista o certezza», dove «i frantumi diventano poltiglia» e resta «solo qualche parola».