«Poe è individuo sganciato dalla storia e dalla successione delle relazione umane», – così scriveva il giovane Manganelli nel 1949 – «uomo che si muove in un ambiente tutto mentale, lirico, avventuroso, in cui vanamente cercheremmo una topografia concreta, di case e strade che non siano simboli di una angoscia interiore. Ed è, insieme, l’uomo senza metafisica, quasi pauroso della solidità e continuità di ogni certezza conoscitiva: uomo che sgretola la sua stessa personalità per sminuzzarla in quella sequela di ‘illuminazioni’ che è tutto il suo esistere terreno ed estetico». Nel biennio 1948-’49, a cent’anni circa dalla morte, uscì un «fertilissimo» saggio di Gabriele Baldini sull’opera di Poe, e quella che forse fu la prima traduzione italiana dei suoi Marginalia, a cura di Luigi Berti. Manganelli, che ancora non conosceva personalmente Baldini, fece una doppia recensione per il «Ragguaglio Letterario»,un mensile milanese a cui collaborò dal ’46 al ’49. Ai Marginalia dedicò poca attenzione: non un sistema critico, ma solo indizi di una «affascinante intelligenza critica fresca , impetuosa», e le sue civetterie, le sardoniche stroncature, non gli dispiacquero. Erano ancora da venire i due grandi saggi del ’71 e dell’80 (Poe e I racconti di Poe, in Angosce di stile) che segnarono l’assimilazione simbiotica di quella scrittura «oscura, angosciosa, veggente e occulta», il fascino di quella estetica sulfurea.
Nel 1994 i Marginalia uscirono da Theoria, nella traduzione di Cristiana Mennella, accompagnati da un saggio di Ottavio Fatica, «In margine ai Marginalia», che si proponeva di «dar la caccia al mistero Poe» su quel terreno minato, lasciato in abbandono. Ora che le recensioni sono tanto gradite, lunghe o corte, ma per carità solo esclamative!, i Marginalia di Poe vengono riproposti da Adelphi («gli Adelphi», pp. 249, € 14,00), nella stessa traduzione e con «altri rimandi e riverberi» che Fatica ha aggiunto ai suoi marginalia precedenti . Data l’ambiguità, l’incerto statuto di questo sottogenere confessionale, ci interessa interrogare le intenzioni, diverse ma non contraddittorie dell’autore, soprattutto perché l’autore è Poe. «Nei Marginalia parliamo solo a noi stessi; dunque parliamo con freschezza – audacia – originalità – con abandonnement – senza presunzione – alla maniera, se vogliamo, di Jeremy Taylor, di sir Thomas Browne, di sir Thomas Temple, di Burton notomista e di Butler, campione di logica analogica…».
Pensieri del momento, colti al volo, rapidamente annotati nello stretto margine a loro riservato. Potrebbero essere brillanti idee per un saggio che dovrebbe giustificarle, ma Poe non vuole scrivere un saggio, sceglie di lasciarle così come si sono presentate nella loro forma breve, aguzza, sallustiana per non dire involuta, elegante e perentoria. Ebbe la fortuna di poter pubblicare quei frammenti su tre giornali: «Democratic Review» (1844-’46), «Graham Magazine» (1846-’48), «Southern Literary Messenger» (1849). Forse perché Poe scrive per gente del mestiere e nel gusto di quel tempo, o anche per l’inevitabile incertezza di tutte le traduzioni, resta l’impressione di un insieme lacunoso, instabile, sotto una superficie opaca. Ma acquista senso e scopo quando Poe spezza una lancia a favore della letteratura periodica che è segno dei tempi, sintomo di un’epoca che impone «lo stringato, il condensato, il riassunto in luogo del prolisso – insomma, giornalismo anziché dissertazione. Ci occorre ora l’ artiglieria leggera anziché le navi da guerra dell’intelletto». Si capisce con quale animo abbia sparato sulla folla dei poveri gnomi di provincia che si pretendevano poeti e romanzieri. Nessuno di quei nomi sopravvisse. Risparmiò Hawthorne, Tennyson, Longfellow, colpì di striscio il poderoso Dickens, Scott, ma atterrò Bulwer Lytton, un altro romanziere storico. Nell’ultimo intervento del settembre 1849 – lui morì il 7 ottobre – se la prese con l’inerme Thomas Hood, tubercoloso cronico, un inglese conosciutissimo per il torrente inesauribile dei suoi giochi di parole. «Il campo ove Hood si distingue è una terra di confine tra la Fantasia e la Fantasticheria … Fantasia incalzata dall’Ipocondria». In conclusione «è palese che si tratti dell’allegria forzata di un ipocondriaco – del ghigno della testa di morto».
Poe crede così tanto nel potere delle parole, che a volte pensa di poter fermare le fantasie evanescenti che si presentano alla mente tra veglia e sonno: si desta di soprassalto, tiene fermo quel punto prezioso, lo trasferisce nella memoria, e per brevissimo tempo può analizzare quelle impressioni . Sono immagini ipnagogiche che lascerebbero sgomento l’intelletto umano «per la suprema novità del materiale adoperato, e delle sue conseguenti suggestioni . Insomma, dovessi mai scrivere un articolo sull’argomento, il mondo dovrà riconoscere che, alfine, ho fatto una cosa originale». Questi Marginalia abbondano di simpatiche confidenze, giudizi, avvertimenti, pacche sulle spalle che l’eccezionale giornalista elargisce ai suoi lettori: «Da parte mia, preferirei assai più aver scritto la migliore canzone che il più nobile poema epico”; «Solo l’occhio di lince del filosofo sa ancora scorgere , dietro il velo d’indegnità sulla vita dell’uomo, la sua dignità»; «L’immaginazione pura sceglie dalla bellezza come dalla deformità le uniche cose più combinabili sinora non combinate». «Ho una grande fiducia nella stupidità – i miei amici la chiamerebbero sicurezza di sé».