«La vanità è il tratto fondamentale della sua indole; e come homo bellus et pusillus si tradisce anche nello stile, col quale civetta come con la sua persona»: questo il giudizio – celebre e lapidario – che nell’Antike Kunstprosa Eduard Norden riservava a Plinio il Giovane, sorta di anti-Tacito inchiodato dalla sua stessa mediocrità a ‘tipo’ stilistico e umano della prima età imperiale. Raramente, del resto, la critica del passato è stata tenera con Plinio, ricco avvocato di origine equestre che partendo dalla provincia (era nativo di Como) si ritagliò un ruolo di primo piano nell’establishment romano fra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C.; paradossale destino, chiosava Luigi Castagna in un volume di qualche anno fa (Plinius der Jüngere und seine Zeit, München-Lepizig 2003), per chi si sforzò in ogni modo di improntare alla bonomia l’immagine destinata ai posteri.
Studi recenti e recentissimi, fra cui meritano una menzione quelli di una expat come Ilaria Marchesi, hanno contribuito a una progressiva rivalutazione dell’autore, oggi testimoniata anche dai due nuovi Oscar «Classici» Mondadori introdotti, tradotti e annotati da Giulio Vannini, professore di Letteratura latina all’Università di Perugia – 50 lettere (pp. 272, e 10,00) e Panegirico a Traiano (pp. 256, e 10,00) – dove l’opera pliniana è giudicata senza mezzi termini «uno dei capolavori della prosa latina»; giudizio in parte spiazzante, ma che può contribuire a sollecitare nuove incursioni e (ri)letture di un autore non ancora del tutto affrancato da idées reçues e sbiaditi ricordi scolastici.

Il Clitumno per Carducci
Divise in dieci libri, le lettere di Plinio sono oltre trecento; senza escludere le più celebri, come la VI 16, dedicata alla morte dello zio Plinio il Vecchio, che include la più antica descrizione dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., o la VIII 8 sulle fonti del Clitumno, modello di Byron e Carducci, quelle selezionate da Vannini offrono ai lettori tutti gli strumenti per una prima ricognizione dell’epistolario, idealmente invitandoli a ulteriori carotaggi.
Architrave dell’universo pliniano è l’amicizia. Si tratta di un rapporto che Luigi Pizzolato (L’idea di amicizia, Einaudi 1993) definiva «debole» perché mai astratto da una quotidiana pragmatica dell’interesse e dello scambio, ma in effetti granitico perché sostenuto dalla compattezza di un blocco sociale preciso, quello dell’ordine senatorio e degli italici che aspirano a farne parte. L’epistolario colloca Plinio al centro di un reticolo di rapporti complessi, ma sempre guidati dalla volontà di stringere gli amici in un mutuo scambio di beneficia, secondo uno stile relazionale basato sul sistematico smussamento di contrasti e differenze. Il precetto «loda l’inferiore, il superiore e colui che ti è pari» (Epistola VI 17) che guida la retorica pliniana dell’elogio non va dunque inteso quale tratto di ingenuo bon ton, ma come parte di una strategia comunicativa volta al consolidamento di un gruppo i cui interessi, per Plinio, coincidono in pratica con quelli dello Stato.
Questa ‘società dei pari’ è anche una società di letterati, nel senso che i suoi membri trovano negli otia letterari una delle loro principali forme di auto-riconoscimento: emblematica è la già citata figura di Plinio il Vecchio, lodato nell’Epistola III 5 perché, pur gravato da grandi responsabilità, non rinunciava a dedicare ogni momento libero, compreso quello del bagno, agli studi e alla scrittura. Di questa sodalitas di letterati Plinio fa parte; anzi, come sottolinea con civetteria nell’Epistola I 13, «non vi è praticamente nessuno che ami le lettere e non sia al contempo mio amico». Nelle epistole antologizzate egli così celebra l’amico Tacito, riconoscendone la grandezza (VII 20) e compiacendosi di venire scambiato per lui (IX 23), piange la scomparsa di poeti come Silio Italico (III 7) e Marziale (III 21) – senza scordarsi di citare un epigramma di cui lui stesso è protagonista –, sollecita le prove degli amici, fra cui Svetonio (V 10), dà saggi della propria esile vena versificatoria (VII 4). Ma l’allusività poetica percorre talvolta anche la prosa epistolare: ne è un esempio l’Epistola VI 20, che descrive la fuga da Miseno dopo l’eruzione del Vesuvio attraverso una densa tramatura di riferimenti eneadici a suo tempo indagata da Marcello Gigante, che le note avrebbero forse dovuto segnalare al lettore.
Ideale proiezione spaziale dell’ideologia pliniana è la villa: egli stesso ne possedeva molte, fra Como e l’Italia centrale, e le rende protagoniste di epistole particolarmente frequentate dai critici – si pensi al prezioso commento archeologico di Karl Lehmann-Hartleben, riedito nel 2007, o agli ultimi studi di Alberto Canobbio – perché sostanziate di riferimenti a Realien archeologici, amplificazioni retoriche e intarsi metaletterari; emblematica è l’Epistola V 6, fra le più belle della raccolta, in cui la sfida fra natura e arte nella descrizione della villa di Toscana raggiunge effetti davvero virtuosistici.
Inscalfibile presupposto e garanzia del modello sociale tratteggiato da Plinio è il governo di un principe virtuoso come Traiano: l’assoluta devozione nei suoi confronti emerge sia dalle lettere del decimo libro dell’epistolario, di recente commentato da Francesco Bracci (Pisa 2011), sia dal Panegirico pronunciato in Senato nel settembre del 100 d.C.

Un fardello gravoso
La stilizzata quotidianità delle epistole cede qui il passo alla sostenutezza retorica che renderà il discorso, propriamente l’atto di ringraziamento di Plinio per l’elevazione al consolato, l’archetipo latino del genere panegiristico. I topoi encomiastici già canonizzati dalla tradizione retorica sono tutti presenti: di Traiano si lodano l’origine, i costumi, le iniziative civili e militari, spesso attraverso il confronto con il «mostro» Domiziano, fino ad assimilare i suoi gesti a quelli con cui il Padre celeste regola le sorti del cosmo. Virtù dopo virtù – le più citate sono anche le più tipiche della tradizione romana: morigeratezza, onestà, coraggio –, Traiano assume così i tratti dell’imperatore ideale, del modello su cui i successori dovranno improntare i propri comportamenti; «fardello gravoso», ammette Plinio, così come non sarà facile per i futuri sudditi accontentarsi di un principe men che eccellente dopo averne conosciuto l’esempio.
Come rileva Vannini, le pagine più interessanti del Panegirico sono però quelle in cui la tensione encomiastica si allenta e la felpata retorica pliniana trasforma l’elogio del principe in una sorta di manifesto dell’indirizzo politico auspicato dalla fazione senatoria: fra i compiti dell’imperatore vi è infatti quello di governare con il consenso di popolo e Senato, e soprattutto di innalzare gli esponenti dell’antica nobiltà alla gloria dei loro antenati, facendo rivivere in loro lo splendore degli avi. L’ossequio per la tradizione spiega anche il paradossale ricorso ai modelli repubblicani per tratteggiare l’elogio del regnante: Traiano condivide infatti le virtù di consoli e generali del passato, rivelandosi una novella incarnazione dei grandi «Fabrizi, Scipioni e Camilli» capaci un tempo di risollevare le sorti di Roma. Nessuna illusione di orizzontalità, in ogni caso: Plinio rimane sempre consapevole della non aggirabilità del potere, e il fatto che Traiano continui a considerarsi un uomo e un cittadino come gli altri rende solo «più fulgida la sua superiorità». Sotto il regno di un optimus princeps, dunque, anche l’esercizio della libertà diventa paradossalmente un atto di ubbidienza («Ci ordini di essere liberi; lo saremo»); ma è forse proprio nell’evidenziare la natura di questa cooperazione entusiastica e perciò stesso revocabile che – ci insegnerebbe Foucault – Plinio tratteggia lo spazio virtualmente a disposizione del contro-potere senatorio.