Nella vasta campagna pianeggiante che si estende tra le città di Torino e Cuneo c’è un piccolo borgo, a lato dello stradone che unisce la rocca di Cavour e la cittadina di Saluzzo. Non distanti sono Racconigi, con il suo noto castello e il parco regio, Pinerolo, con il parco storico di Villa Il Torrione e il castello di Pralormo, amatissimo per le sue collezioni di tulipani. Siamo nelle laboriose campagne agricole, per generazioni la terra è stata lavorata come avviene in tanti fazzoletti del resto della Pianura Padana tra Lombardia, Emilia e Veneto.

IL BORGO SI CHIAMA CAMPIGLIONE FENILE ed è cresciuto intorno alla residenza dei conti Lurisia. La stradina serpeggiante che conduce al centro transita accanto ai confini di un parco recintato, a sua volta adiacente al parco murato del castello. Diversi i grandi alberi presenti, per essere un paese così ridotto la quantità di alberi monumentali è straordinaria. Alcuni sono alberi esotici, come un grande noce nero americano, una maclura o gelso del Texas, e una splendida, rara e goticheggiante Pterocarya stenoptera, o noce della Cina. Ma i protagonisti sono due enormi Platanus x acerifolia, o platani ibridi, alias platani di Londra; si crede siano stati piantati intorno all’anno 1800, quando vennero realizzati i giardini del palazzo e anche questo spazio esterno, noto da anni come il Campo dei Miracoli, prendendo a prestito il ben più noto a architettonico landmark pisano.

PRIMA CHE IL PERIMETRO DEL PRATO venisse chiuso da un’alta recinzione, mania dei nuovi e più recenti italiani che proteggono tutto quel che possono proteggere, le campagne italiane erano uno spazio aperto, un vero open space dove il transito non era preventivamente vietato e ci voleva ben poca grazia per capire se era opportuno procedere o no, e nel caso si fosse entrati a casa d’altri come farlo, cosa poter eventualmente evitare per non dispiacere, per non irritare, per non calpestare. Ma ormai vent’anni di paure da nuovo millennio, tra attentati di matrice ideologica e religiosa, epidemie e bombardamenti mediatici, ci hanno intimiditi così profondamente che anche ai cavalli che ci occhieggiano oltre un recinto è vietato dare una carezza, per non parlare di un filo d’erba o di un pezzo di pane raffermo. Quanto riderebbero di tutto questo i nostri vecchi di una volta, e forse in parte anche quelli ancora presenti oggigiorno. Mi sovviene un verso di una poesia del poeta polacco Czeslaw Milosz (1911-2004), Premio Nobel per la Letteratura nel 1980: «Sta già nascendo una generazione mortalmente seria / che prende alla lettera ciò di cui noi ridevamo». Verso finale del quarto movimento di un poema dal titolo Fanciullo d’Europa, composto a Cracovia nel 1945, uscito nella raccolta Luce del giorno (possiamo leggerlo nell’antologia della sua poesia edita da Adelphi, a cura di Pietro Marchesani).

PARTE DEI BOSCHI SONO PRECLUSI e per coloro che vi si avviano attenzione a questo, attenzione a quello. Non parliamo dei giardini dove non si può giocare a palla, è vietato portare in libertà il proprio cane, calpestare l’erba o scattare fotografie. Una miriade di piccoli legislatori oramai tende a governare gli spazi di minima libertà che permangono, a parte coloro che ovviamente seguono l’antico rito del «faccio quel che mi pare quando mi pare e punto a capo». Non pochi ritagliano il paesaggio con recinzioni e cartelli di vietato l’accesso. Quando iniziai ad allungare il passo nel paesaggio italiano la quasi totalità degli alberi secolari e/o monumentali – in parte ancora non riconosciuti – era disponibile, si poteva avvicinare e eventualmente accarezzare senza che qualcuno ti minacciasse o puntasse il dito contro di te. Non sono mancate le volte nelle quali sono dovuto sgattaiolare per evitare morsi di cani – ricordo un paio di episodi palermitani, buffi ora che ci penso, meno quando ero col fiato corto e le gambe in spalla – e altre situazioni al limite del «ne ho viste di cose che voi umani».

OGGI MOLTI ALBERI di città sono cintati, l’accesso è debitamente impossibilitato. E non diverso sta avvenendo nelle campagne, che siano le colline a vigneto del Monferrato o del Chianti, i meleti del Sud Tirolo e del Trentino, o ancora gli uliveti nel Mezzogiorno. Sempre più alberi monumentali vengono museizzati, certamente protetti ma così facendo si allontanano i ricordi possibili che comunque sono una delle ragioni effettive che hanno portato, in una civiltà prevalentemente contadina come è stata quella italiana per secoli, a conservare grandi alberi che sono giunti fino a noi. Se non per rispetto o per affetto, perché un contadino o un montanaro avrebbe dovuto risparmiare un grande albero?

ESEMPIO PRATICO. COME RIBADITO poche righe prima a Campiglione Fenile sono presenti due dei maggiori platani della Regione Piemonte; vivono insieme, due tronchi che si elevano e compongono un’enorme semisfera arborea larga, spanna più, spanna meno, una trentina di metri e tanti passi. Ho visitato i due platani che chiamai tempo fa, gli Imbronciati, in diverse stagioni, con la neve come col sole a picco, a gennaio quando la corteccia è visibile e a luglio, quando il popolo vanitoso delle foglie ricopre l’intero organismo in una diffusa ombra magica. Ho misurato nel tempo la crescita di circonferenza di questi tronchi, centimetro dopo centimetro. Lo stesso nome con cui il posto ora è conosciuto, Campo dei Miracoli, è una mia piccola invenzione cucita tra articoli per il quotidiano La Stampa e i primi silvari di varie stagioni orsono. Qui sotto mi sono sbalordito, le prime volte, mi sono appassionato, mi sono autofotografato – selfizzato?! – ho meditato all’alba e ho anche accompagnato alcuni gruppi di etnobotanici ed ecociclisti curiosi.

I DUE GRANDI MAESTOSI PLATANI di Campiglione Fenile, oramai una tappa obbligata per molti cercatori di alberi, per arbonauti, per viandanti, mi hanno sempre accolto nel loro silenzio. Ogni volta mi inchino alle loro forme prepotenti, sauresche, mi inginocchio e poso la mia schiena contro i loro tronchi. E resto qui, nel mio dolce far niente, ad attendere un loro brontolio, uno scuotimento di fronda. Cinquant’anni fa i bambini vi venivano a giocare, quando le recinzioni non esistevano salivano sui rami lunghissimi – anche fino a 10/12 metri – che ancora erano sospesi, a mezz’aria, e li stavano a dondolarsi, consumavano diversi momenti qui, fortificando i loro ricordi. Chi oggi può ancora farlo? Gli audaci che entrano dalla porticina di legno spesso malmessa a causa del transito di chi l’aveva trovata chiusa. Ma lo stesso potrei dire di alcuni alberi delle nostre città, certi ficus del sud, tra Cagliari, Napoli, Palermo, Catania o Reggio Calabria, certi platani tra Milano e Bologna, Torino e Firenze e Roma. Quel silenzio misterioso che abita questi testimoni del tempo che vola per fortuna non sarà mai recintato, ma come condividerlo se gli alberi saranno separati da noi come se fossero la Gioconda, un Van Gogh o un prezioso Stradivari?