Sul tempo in cui la vita culturale si svolgeva nei caffè esiste un agile e piacevole libretto di Patrick Mauriès, Quelques caffés italiens (Gallimard, 2001), in cui l’autore, nel dare la motivazione del libro, confessa la personale fascinazione per questi luoghi «immatériels, transitoires par essence», dei quali, sebbene tanta parte abbiano avuto nella formazione dei nuovi orientamenti estetici, così poco oggi è rimasto. Succeduti ai salotti aristocratici, avevano, come quelli, creato le condizioni per l’incontro delle intelligenze. Condizioni umane, s’intende, di conversazioni, d’urti, di scambi, e perciò immateriali e irripetibili; tali per cui al presente sentiamo in molti di questi ambienti, non sopravvissuti che nel guscio, qualcosa di murcido e d’ischeletrito. Ignorando la vita di questi luoghi, è come se vedessimo il prodotto d’una combustione, senza sapervi il ruolo che v’ha preso la fiamma. Tra i caffè evocati da Mauriès, c’è il Greco di Roma, il Florian d Venezia, il Pedrocchi di Padova, il Buratti di Torino, manca però il Michelangelo di Firenze, che nella nascita del movimento dei Macchiaioli ebbe un ruolo di spicco.
Lì un giorno capitò un ragazzo, «anzi più che un ragazzo, un putto, tanto era grasso e tondo come una mela»: il putto, figlio di una famiglia della borghesia agiata, era Diego Martelli, che dei Macchiaioli sarebbe diventato mecenate e protettore. Anche Telemaco Signorini vi irruppe d’improvviso nel 1855 assieme a due giovani «che aveva accivettato coi piccoli occhi celesti di miope precoce», Odoardo Borrani e Vincenzo Cabianca; il vestito scozzese e la smorfia perpetua sulle labbra carnose doveva farlo assomigliare a un satiro sperdutosi fra le fosche caligini settentrionali.
Ma al caffè Michelangelo si ritrovavano, oltre che i pittori, gli amici dei pittori e alcuni dei loro primi critici e collezionisti, come appunto Martelli. Insieme costituivano una società il cui spirito solidale è testimoniato dalle collezioni che s’andavano formando tramite i doni e gli acquisti e che ora possono vedersi in parte ricostruite ed esposte, fino al 18 aprile, nelle sale di Palazzo Zabarella, dove i curatori Giuliano Matteucci e Fernando Mazzocca hanno allestito la mostra imponente I Macchiaioli. Capolavori dell’Italia che risorge, che forse avrebbe fatto meglio a chiamarsi Macchiaioli. Amici, mecenati, primi collezionisti, come il titolo del saggio introduttivo al catalogo. Giacché non si ha qui una contrapposizione di questi artisti a quegli altri, né una cronistoria, fitta di antesignani e di eredi, né una messe di schizzi e di bozzi preparatori ma come una planimetria, un taglio netto, orizzontale che mostri il movimento nella sua fioritura, come fosse un palazzo del quale vogliano conoscersi anche gli angoli ciechi e le scale di servizio. I nomi delle sezioni bastano a darne conto: Critici e letterati, Amici e mecenati, Primi collezionisti, Pittori amatori, I mercanti, La collezione Angiolini.
Dapprincipio i mercanti, i collezionisti e gli amici furono pochi. Alla Prima Esposizione Nazionale di Firenze, ch’ebbe luogo nel 1861, i Macchiaioli dovettero subire boutades di un genere non troppo differente da quelle che avrebbero patito gli Impressionisti al Salon des Refusés, appena qualche anno più tardi. Giacché, sebbene essi non attingessero a quel nirvana luministico che era in fondo l’ultima aspirazione di un pittore quale Monet, ma perseguissero, attraverso l’anarchia della macchia, un senso rigoroso e costruttivo della forma, le loro opere apparivano egualmente al grosso del pubblico dirozzate e informi. Eppure il giovane Borrani si era educato la mano copiando gli affreschi di Paolo Uccello al Chiostro Verde e di Giotto a Santa Croce, e Fattori col disegnare quelli di Filippino Lippi e del Ghirlandaio (alcune di queste copie giovanili furono pubblicate per la prima volta da Mario Tinti nel 1926); quanto a Lega, aveva appreso la disciplina purista alla scuola del Mussini.
I primi a prendere le parti della nuova scuola furono Diego Martelli e Gustavo Uzielli, nelle cui private collezioni erano originariamente collocate alcune delle tele che possiamo ammirare in mostra: Castiglioncello (1856, già collezione Martelli, ora alla Galleria degli Uffizi) di Borrani, una pittura vasta e distesa con un respiro di solenne quiete nel tacito splendore del tramonto, così tipica dell’artista; Marina di Castiglioncello (1866, già appartenuto a Uzielli, ora in una collezione privata), fra le cose più belle di Sernesi, con la sua pasta di colore compatta disseminata d’uno spolverio dorato, quasi fosse materia di lapislazzulo; o ancora Lido con buoi a pascolo (1862, anch’esso un tempo posseduto da Uzielli e adesso passato di proprietario) di Abbati.
Ma le cose più rilevanti di questa sala provengono dalla raccolta di Ojetti, autore di molti saggi e articoli sui pittori della «macchia». Fra queste due capolavori: Marina con barche a Livorno (1885) di Fattori, dove si vede una fila d’ombre duramente accovacciate sulla proda che, chine sulle reti, le riparano con l’accanimento di grandi procellarie che sventrino un pesce, e del Borrani Mietitura del grano nelle montagne di San Marcello (1861), larga composizione d’epica quotidiana in una natura cheta e maestosa sulle cui montagne la luce cade, avvolgendole, come lieve coltre nevosa.
Alcune delle migliori tele di Signorini furono, invece, acquistate da Isabella Falconier, facoltosa nobildonna inglese, che risiedeva come molte sue compatriote in Toscana. Fu lei a introdurre Boldini in Francia. Del pittore fiorentino, col quale strinse sodale amicizia, comperò già nel 1861 la Cacciata degli austriaci dalla borgata di Solferino (1860), nel quale sfrigola e rifulge in corruschi baleni tutto l’estro dell’artista, e più tardi Un mattino di primavera. Il muro bianco (1866), più raffinato e dimesso. Le cose più interessanti di Lega, invece, avevano fatto un giorno parte delle collezioni di Odoardo Lalli e di Rinaldo Carnielo, pittori come lui, e soprattutto delle famiglie Cecchini e Battelli. Da opere quali L’educazione al lavoro (1863), Un dopo pranzo (1868), L’elemosina (1864) traspare un mondo limpido e pudico, in cui la grazia dei modi si restringe nella misure borghesi della buona educazione, come l’artista dovette assaporarlo presso i Battelli, nel corso del suo breve idillio con Virginia: sono i salotti di Nonna Speranza, certo, ma prima che Gozzano ne facesse la canzonatura!
Anche di Fattori ammiriamo lavori eccellenti, e fra questi particolarmente quelli in cui sono rievocate le azioni militari di Giovanni Del Greco, garibaldino e patriota, che glieli commissionò nel 1880: si tratta di una trascrizione austera e nervosa della vita militare, senza vampe d’eroismo, che si compie sotto un cielo atono, fumido e velato. Ma il Fattori che più ci resta impresso nella memoria è Acquaiole livornesi (1865), di una purezza quattrocentesca, in cui le linee della composizione paiono convergere sulla rossa anfora che una delle due donne porta sul capo; e tale è l’equilibrio che essa dona alla scena naturale che pare che tutto il mondo debba reggersi su quella brocca e sull’eterna fatica della povera acquaiola che umilmente la sostiene.
Mentre si dà l’ultimo sguardo a un meraviglioso olio, Bambini colti nel sonno (1896) di Signorini, che ricorda da vicino Le lit (1892) di Toulouse-Lautrec, si esce dalla mostra piacevolmente storditi dall’abbondanza d’opere, come da quella seconda sala del caffè Michelangelo, in cui i Macchiaioli, fra uno sbuffo di fumo e l’altro, leticando creavano.