Chi non ha mai preso un granchio in vita sua? Da adulti magari è più facile incorrere nel doppio senso, ma quando si è piccoli l’azione è proprio quella della bambina bionda che tende il braccio mostrando il suo trofeo verso l’obiettivo dell’anonimo fotografo. Si tratta di una delle migliaia diapositive a colori, datate a partire degli anni ’50, che il regista Lee Shulman ha collezionato negli ultimi cinque anni dando vita a The Anonymous Project, la più ingente collezione di immagini vernacolari.

La selezione dal titolo Storyville è disseminata lungo la spiaggia e in giro per Deauville, località balneare amata dal cinema e dalla letteratura, che aspira a diventare un grande album fotografico – in parte en plein air – in occasione di Planches Contact – Festival de photographie de Deauville (fino al 2 gennaio 2022). Quest’anno il festival festeggia la XII edizione – la terza con la direzione artistica di Laura Serani – ed ha come quartier generale il bellissimo edificio Les Franciscaines, già convento delle suore francescane, completamente ristrutturato e restituito alla cittadinanza nella sua nuova veste di centro culturale e sede della più grande collezione fotografica della Normandia.

Mentre un aquilone verde e giallo volteggia nel cielo grigio e un paio di cavalli da trotto corrono con il sulky, c’è chi passeggia lungo la promenade intercettando con lo sguardo altre scene dall’atmosfera vacanziera, come i celebri scatti di Joel Meyerowitz della spiaggia di Cape Cod, dove lo stesso fotografo si autoritrae negli anni ‘70 in una mise en pose che svela in parte il trucco. «Un festival è un’avventura collettiva ed è molto coinvolgente», afferma Laura Serani. Rispetto ad altre rassegne, Planches Contact invita in residenza autori internazionali per produrre lavori sul territorio che entrano a far parte del patrimonio della città.

Tra gli artisti di quest’edizione sono presenti anche Baudouin Mouanda, SMITH, Riverboom e Joan Fontcuberta sia con la sua «campagna pubblicitaria» di Galaxy Entertrainment Inc. Gossan: Mars Mission (la mascotte è lo psichedelico jamón marziano) che con il progetto realizzato con Pilar Rosado, confrontandosi con le opere d’arte della collezione di Les Franciscaines attraverso l’intelligenza artificiale dell’algoritmo GAN-Generative Adversarial Networks.

Invece, Antoine d’Agata in Lignes de front ha tracciato una topografia interiorizzata che si riflette nel testo-manifesto, un estratto della corrispondenza del fotografo da marzo a ottobre 2021. Quanto ai riferimenti letterari, Marguerite Duras è centrale sia nel lavoro di Anne-Lise Broyer che cita L’estate ’80 confrontandosi con i propri ricordi, che in Que d’amour c’ètat di FLORE (invitata dalla Fondation photo4food insieme a Costanza Gastaldi, Pierre-Eli de Pibrac e il duo Caimi&Piccinni) che nel suo film 16mm evoca il momento fatale del ballo descritto nelle pagine di Il rapimento di Lol V. Stein. Ha la visionarietà del racconto emotivo, carico di ambiguità e mistero, anche il progetto di Antoine Lecharny nella sezione Tremplin Jeunes Talents (in residenza insieme a Teo Becher, Celine Croze e Alisa Martynova) che descrive poeticamente il viaggio in treno Paris-Deauville, premiato dalla giuria presieduta da Sarah Moon.

L’ironia torna ad affiorare nella scritta Forêver del collettivo Riverboom (Paolo Woods, Gabriele Galimberti, Edoardo Delille, Claude Baechtold), tracciata sulla sabbia e immortalata dal drone: la marea la cancella come le promesse d’amore sussurrate al mare in una notte d’estate. Ma se è vero che la realtà troppo spesso non lascia spazio alla fantasia, il «rêver» dell’ultima parte della scritta non può non ricordare che c’è sempre una possibilità per i sognatori.

 

Una cinepresa anni ’30 per un amore sospeso : FLORE

 

(ph. Manuela De Leonardis)

 

«Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo», scrive Giorgio Agamben nel saggio Che cos’è il contemporaneo? Parole rivelatrici per FLORE (1963, vive e lavora a Parigi) che ricorre al mezzo fotografico per raccontare e condividere storie che guardano al presente attraverso la chiave del passato. Artista in residenza nella sezione photo4food di Planches Contact. La fotografa franco-spagnola che nel 2020 ha vinto il Prix Nadar per il miglior libro con L’odeur de la nuit était celle du jasmin ha realizzato il suo primo film in 16mm – Quel amour c’était – che trae ispirazione da un romanzo di Marguerite Duras.

Per la prima volta Planches Contact espone un film, come nasce questo progetto?
È un film d’artista, non è cinema. Ho provato a condividere delle emozioni rispetto ad un testo di Marguerite Duras. Mi sono ispirata a questa scrittrice anche in altri due libri, Une femme française en Orient (2014) e L’odeur de la nuit était celle du jasmin (2020), così quando Laura Serani mi ha invitata a produrre un progetto per il festival ho deciso di realizzare il film breve che avevo in mente, scegliendo il romanzo Le Ravissement de Lol V. Stein. Non è stato facile perché era la prima volta che facevo un film, ma ho scelto di concentrarmi sul momento più importante che è quello del ballo. Lol Stein, la protagonista, è fidanzata con Michael Richardson da quando aveva 19 anni, ma ad un ballo in una località balneare arriva una donna più grande e Michael s’innamora immediatamente di lei. Ballano insieme una volta, poi due e alla fine della serata lui lascia Lol che ha una crisi. È una storia di passione e anche di abbandono. Certo, un personaggio come Lol Stein per me è impossibile da capire, perché lei lascia che lui vada via. Ho scelto di usare una vecchia macchina da presa Bolex Paillard con la pellicola in bianco e nero. Non c’è suono perché si tratta di una mitica cinepresa degli anni ’30, un apparecchio manuale con cui si possono fare solo brevi riprese. Il film, infatti, dura poco più di 8 minuti. Insieme a mio marito Adrian Claret-Pérez, che è anche il mio assistente, abbiamo girato in alcune località tra Deauville e i dintorni. Credo che in questo mio lavoro ci sia soprattutto il mio amore per Visconti e per i suoi piani lunghi.

Luchino Visconti, Marguerite Duras… nei tuoi lavori c’è sempre una sospensione temporale, anzi la percezione di un tempo perduto…
Visconti, per me, è legato ad un concetto di eternità. Quando filmavo sulla spiaggia avevo in mente i suoi lunghissimi piani sequenza. Visconti è un referente costante. Di Marguerite Duras non mi interessano i romanzi in sé, ma il suo processo mentale, la libertà di raccontare la stessa storia tante volte ma in maniera diversa, cambiando solo dei minimi dettagli. Sì, Marguerite Duras incarna l’idea della libertà dagli schemi. C’è chi dice che il mio lavoro sia nostalgico, ma non mi sento scollegata dalla realtà. La fotografia serve per portare una luce, qualcosa di diverso. Percepisco la gioia della creazione. Sento e creo. Ma oggi essere artista vuol dire anche interagire con la politica. Anche la mia fotografia pur essendo poetica è politica. Nel 2018 ho pubblicato il libro Camp de Rivesaltes, lieu de souffrance, con un testo storico di Denis Peschanski, sul campo di concentramento di Rivesaltes che si trova sui Pirenei, nel sud della Francia. Vi fu mandato anche mio nonno, Antonio Gimeno, che era un anarchico spagnolo. Oggi è stato fatto un memoriale che occupa una parte molto piccola del luogo, ma quando ci sono stata per la prima volta, nel 2005, era molto grande. Non ci si può rendere conto dell’immensità della sua storia. Nel ’39 ci furono mandati i rifugiati spagnoli, durante la seconda guerra mondiale gli ebrei e i gitani, nel dopoguerra gli algerini e, fino al 2007, è stato centro di detenzione amministrativa per i sans papier. La mia idea era fare un lavoro sulla violenza e sul dolore, non solo sull’esperienza degli spagnoli ma di tutta l’umanità. La prima serie è in bianco e nero, molto scura, mentre la seconda è a colori e in polaroid. Il colore, in realtà, è minimo e sfocato, un po’ come la memoria.