La fiera «Più libri più liberi», conclusasi a Roma la passata domenica dopo cinque giorni di afflusso da concerto rock, sarà ricordata sia per la quantità enorme di visitatori sia per la novità del luogo che ha ospitato 550 espositori in 3.500 metri quadrati di spazio e mezzo migliaio di dibattiti: la famosa «Nuvola» di Fuksas, infine – dopo lungaggini e polemiche – consegnata alla fruizione di massa, ancorché la leggerezza imponente della nuvola sia anchilosata dalla bardatura che la inscatola.

Il successo dell’edizione preparata con cura e passione dall’Associazione italiana editori (Aie) è una boccata di ossigeno, che per un attimo ci fa sognare di essere in un altro mondo, in un altro paese. E sì, perché, finito il dì di festa, torna protagonista la deludente routine dei consumi culturali, segnatamente della lettura.

Come annota proprio il rapporto dell’ufficio studi dell’Aie, la media italiana è del 40,5% nel 2016, al di sotto del 62,2% della spagna, del 68,7% della Germania, del 73% degli Stati Uniti (sarà vero?), dell’83% del Canada, dell’84% della Francia, del 90% della Norvegia.

Del resto nel 2017, a fronte di una crescita del fatturato dell’1,5% vi è stata una diminuzione dell’1% delle copie vendute.

I campi o generi che vanno meglio sono il filone ragazzi e bambini, la fiction straniera e la manualistica (pur in difficoltà).

Tuttavia, un altro raggio di luce viene dalla crescita del numero delle case editrici, dal discreto andamento degli e-book e, soprattutto, dall’aumento della vendita dei diritti nonché dalla maggiore capacità degli editori di destreggiarsi nei mercati internazionali.

Comunque, piccoli e medi editori vanno meglio percentualmente dei grandi, divenuti ormai oligopoli tra i deboli e deboli con i forti, quei gruppi sovranazionali incrociati da tempo con la globalità dei media che osserviamo da lontano.

In tale contesto variegato, ben vengano iniziative come quella di Roma, che compete senza alcun senso di inferiorità con le kermesse di Torino e di Milano. Anzi. Ancora si attende una spiegazione plausibile della lite sull’asse Mi-To, mentre un «palinsesto» concertato tra nord, centro e sud potrebbe dare un po’ di linfa al comparto cruciale della conoscenza.

Senza nulla togliere all’universo radiotelevisivo o al rampantismo dei social, niente come il libro interagisce con la mente e con i sensi: dal piacere del contatto fisico, al formato-tavoletta studiato tantissimi secoli fa in quanto perfetto per la visione umana.

Il ministro Dario Franceschini, che ha inaugurato la fiera, ha evocato lo stanziamento di tre milioni di euro nella legge di bilancio per un nuovo fondo per la lettura e l’aiuto fiscale alle librerie. Meglio di niente. Però, lo stesso titolare del ministero ha lamentato la mancanza di una vera riforma dell’editoria, comprensiva finalmente del libro e della lettura.

Oggi l’unico appiglio è la legge del 2011 che porta la firma di Ricardo Franco Levi, ora presidente dell’Aie. Un testo utile, ma limitato al contenimento degli sconti lesivi delle case editrici meno grandi e distruttivi per le librerie indipendenti. È poco.

Serve, appunto, una riforma, che contribuisca alla ripresa, attraversando l’intera filiera: dalla produzione alla distribuzione alla formazione nelle scuole alla valorizzazione delle biblioteche.

C’è l’esigenza di una politica di respiro, in grado di far salire di rango l’editoria. Il business del libro ha raggiunto la quota di 2.561 miliardi nel 2016. All’incirca come il valore della pubblicità di Rai e Mediaset. Pochino.