«Se sarà utile sono disponibile a far parte di una lista aperta». Il ritorno in campo di Giuliano Pisapia era nell’aria da giorni. Ieri è arrivata la sua «disponibilità» a candidarsi per le prossime europee. L’ex sindaco di Milano riallaccia il filo del discorso da dove lo aveva spezzato alla vigilia delle politiche del 2018 per l’indisponibilità al dialogo dell’allora leader Pd Renzi. Ma anche, uguale e opposta, quella di una parte dei suoi sostenitore di allora, gli ex Pd della Ditta Bersani&D’Alema.

OGGI MOLTO È CAMBIATO: il leader del Pd è un altro, c’è un governo giallobruno e, spiega l’ex sindaco, «alle prossime europee si confronteranno visioni opposte dell’Europa e del nostro Paese, per questo credo sia necessario impegnarsi perché si affermino i valori dell’inclusione, della dignità delle persone, delle tutele del lavoro e dello sviluppo economico e sociale che sono messi in discussione, non solo in Italia».

LA RUOTA GIRA. Gli ex Pd ora propongono al Pd e ai socialisti di Nencini una lista progressista unitaria. Inascoltati fin qui. E invece Pisapia rientra nella corsa in carrozza, da capolista nel Nord ovest.

POSTO CHE CARLO CALENDA è ben contento di «cedergli», come ha dichiarato a Panorama. Lui, l’ex ministro, si rifugerà nel Lazio, comodo serbatoio di voti del suo presidente, e cioè del neosegretario Pd. Dove dovrebbero schierarsi anche gli eurodeputati uscenti Sassoli e Gasbarra (area Franceschini), Bonafé (Renzi) e Gualtieri (Giovani turchi). Nomi di tutti le correnti, tranne quella dello stesso segretario, visto che Goffredo Bettini è intenzionato a non ricandidarsi.

ZINGARETTI ACCOGLIE PISAPIA a braccia aperte: «Felice per le sue parole. Ricostruiamo una speranza per cambiare questa Europa, con la passione e l’impegno civile di Giuliano e di tante altre persone», dice. E intanto aderisce al Friday for future ecologista dei ragazzi oggi nelle piazze di tutto il mondo (nella foto qui accanto, tratta da Istagram).

CALENDA INVECE CONTINUA nella sua quotidiana opera di respingimento dell’ala sinistra, non sia mai il Pd dovesse recuperare qualche voto da quella parte. Ieri ha impegnato la giornata in una polemica contro Laura Boldrini accusandola di scarso europeismo per via del no al Ceta, l’accordo commerciale della Ue con il Canada davanti al quale i partiti si sono trasversalmente divisi fra pro e contro. Ma la vis pugnandi finisce in figuraccia, per Calenda: purtroppo per lui anche Zingaretti a suo tempo schierò il Lazio contro il Ceta.
Nell’ala sinistra dello schieramento di Piazza Grande, che ha una presenza organizzata proprio nel Lazio, scende il gelo verso l’ex ministro.

BATTE UN COLPO anche il collega Marco Minniti, fresco di contestazione degli studenti della London School of Economics di Londra, tre giorni fa. A Un Giorno da Pecora (Radio Uno) si dichiara sicuro che domenica all’assemblea nazionale «Gentiloni sarà eletto presidente con un larghissimo accordo».

MA NON È COSÌ, almeno per ora. Dopo il flop delle primarie le due minoranze del Pd si sono fatte in cinque. L’area di Maurizio Martina è letteralmente esplosa. I «big» renziani Lotti, Guerini e Rosato si sono autonomizzati per trattare direttamente con Zingaretti. Aspettano «la proposta unitaria che il nuovo segretario ha promesso» – il linguaggio è quello inconfondibile di Lorenzo Guerini, che Renzi chiamava «Forlani» – e si preparano a votare Gentiloni. Dubbi invece nei pochi rimasti con Martina e anche nei Giovani Turchi. Orientata al no invece l’area di Giachetti, che pure si dichiarava erede del riformismo del governo Renzi ma anche di quello di Gentiloni. Anche Matteo Richetti si mette in proprio.

LE MINORANZE COSÌ SPAPPOLATE non riescono a concordare una proposta unitaria sui loro rappresentanti nella direzione, che dovrà essere votata domenica stessa. Tanto meno per il vice che spetta in quota all’opposizione interna. Il rischio è che si voti per mozioni contrapposte, in una situazione inedita: uno scontro all’interno dell’opposizione.