Sul promontorio ispido e roccioso del Gargano si fronteggiano le famiglie Malatesta e Camporeale, clan appartenenti alla mafia del foggiano. A inasprire i dissapori tra le due famiglie è l’amore proibito tra Andrea Malatesta e Marilena, moglie bellissima e sensuale di Santo Camporeale; un’amore shakespeariano che porta le due famiglie in un vortice di violenza e distruzione. Pippo Mezzapesa nel suo ultimo film Ti mangio il cuore, presentato in concorso nella sezione Orizzonti alla Mostra di Venezia e adesso in sala, racconta una tra le mafie più violente e ancora poco conosciute d’Italia, soprannominata «quarta mafia». Partendo dall’omonimo libro di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, il regista affronta un mondo arcaico in cui vige la legge del più forte, dove l’offesa si lava con il sangue e la memoria cancellata eliminando il viso dei nemici. Non ci sono sfumature, ma un contrasto senza mezzi termini ben incarnato dal bianco e nero che il regista utilizza esaltando i conflitti e i contorni di una terra aspra e dura, come i visi dei protagonisti che reggono questo mondo.

Come hai affrontato il libro di Bonini e Foschini e lavorato alla sceneggiatura?
Avevo conosciuto la storia della prima pentita di mafia del Gargano già nel 2007 quando la storia di questa faida scoppiata per un amore impossibile era emersa dall’eco delle cronahe; una storia che mi aveva affascinato molto con tutti quei rapporti contorti all’interno di questo nucleo famigliare. A distanza di tempo Foschini e Bonini, con cui avevo già collaborato su alcuni cortometraggi come SettanTa incentrato sull’ILVA e La giornata, mi hanno proposto di leggere il loro libro ancora in bozza, dove c’era un analisi molto accurata della «quarta mafia» del Foggiano e del Gargano. Nei vari capitoli del libro ho individuato la storia che anni prima mi aveva colpito e mi ci sono tuffato subito. Non si è trattato solo di trarre dal romanzo, ma insieme agli sceneggiatori Antonella Gaeta e Davide Serino abbiamo cominciato a fare delle ricerche e a raccogliere materiale anche grazie alla collaborazione di Foschini e Bonini che ci hanno affiancato in tutta la fase: hanno fornito gli atti processuali e le intercettazioni, permesso di ricreare la storia e soprattutto d’incontrare la vera pentita con cui, attraverso diversi incontri, abbiamo potuto ricostruire la storia personale ed emotiva della vicenda di Marilena.

Negli ultimi anni nel cinema di genere emergono sempre di più le figure femminili del mondo mafioso, donne che nel silenzio muovo le azioni di guerra tra clan come la madre di Andrea o provano a ribellarsi come Marilena. Come avete lavorato alla costruzione di questi personaggi?
È l’aspetto che mi ha colpito di più e che mi ha portato a scegliere di mettere in scena questa storia. Raccontare sì la parabola di Andrea, un principe non pronto a succedere al padre, ma volevo soprattutto raccontare queste due donne, due poli e forme di amore differenti, un amore salvifico e un amore che condanna al l’ineluttabilità del male, ma comunque due forme di amore con due donne forti che a loro modo sono l’una lo specchio dell’altra. Entrambe hanno una propria forza declinata in maniera diversa: la madre di Andrea non riesce a liberarsi dalle radici del male, invece, Marilena ha la forza di reciderle, forse, per una questione anagrafica. Fortunatamente i tempi cambiano e oggi si tenta di spezzare questo ciclo di violenze. Più in generale a me piace raccontare delle persone, non dei personaggi e quindi cerco di trovare anche la fragilità umana. Se ci pensi tutti i personaggi di questo film anche i più foschi, i più neri e crudi hanno una forma di umanità, mi piace sviscerare e andare a vedere cosa c’è dietro le ombre dei personaggi come lo spietato Giovannangelo che ha un dolore profondo.

C’è un gioco importante di scambio d’inquadrature tra i Malatesta e i Camporeale, dove i Montanaro osservano a distanza. In questo scambio spiccano i campi lunghi sul paesaggio, come ti sei relazionato ai luoghi?
È tutto un gioco di contrapposizioni. La regia è svolta per esplicitare e restituire quella che è la faida, il concetto di schieramenti delle famiglie accecate dall’odio e che si distruggono a vicenda. Con queste contrapposizioni volevo anche far emergere che l’odio può essere manovrato, ma soprattutto concentro molto l’attenzione sui volti espressivi degli attori che ho scelto e sui personaggi che compongono questo mondo. Ho cercato di alternare i primi piani ai campi lunghi in cui ho inserito questi paesaggi fatti di una natura meravigliosa ma allo stesso tempo spietata, dove il mondo animale s’impone fortemente nella vita umana. La similitudine tra uomini e animali è molto presente e ho voluto fortemente ricreare questo mondo. Abbiamo girato dall’autunno all’inverno e la masseria utilizzata nel film era piena di fango e immersa in una radura circondata da un bosco; è stato un set molto complicato che ci ha messo a dura prova, ma ci ha anche aiutato ad entrare nel «mood» del film. Questo non è un mondo semplice ma duro, fatto di fango e animali che non è stato semplice gestire; le difficoltà possono essere enormi nel far percorrere le strade del paese a una mandria di mucche o liberare dei maiali sui corpi e avere tanti animali sulla scena. Gli animali in questa società hanno un ruolo importante, le faide partono per una questione di abigeato, le dichiarazione di guerra si fanno attraverso gli animali o si ricuciono dei rapporti grazie agli animali, quindi è una società in cui l’umano e l’animale vivono in stretto contatto e questo andava vissuto e raccontato.

Nel tuo film c’è un forte senso materico all’interno delle immagini, quanto ha influito la scelta del bianco e nero e come hai lavorato con la fotografia?
La scelta del bianco e nero è stata tra i punti di partenza. Dico sempre che il senso del film è racchiuso nel titolo Ti mangio il cuore, una promessa di morte e nello stesso tempo una dichiarazione folle di amore. Questa ambivalenza è sempre presente in tutto il film e la scelta del bianco e nero è legata alla voglia di ricreare questi contrasti e per enfatizzare, come dici tu, questo mondo materico e la sua profondità espressiva fatta di roccia, sangue, fango, di bestie e di uomini bestie. Lavorare con il bianco e nero è stato per me, per il direttore della fotografia, la costumista, gli scenografi e per tutti quelli che hanno lavorato al film, una grande avventura e scoperta perché c’è un modo di lavorare con l’immagine e la materia completamente diverso. I contrasti non si restituiscono solo con i colori ma molto di più con la materia o attraverso l’utilizzo di determinate tonalità cromatiche che se il film fosse stato a colori sarebbero state assurde, invece, nel bianco e nero ci sono dei colori che hanno un contrasto più giusto. Per esempio il colore del sangue non era credibile, non era rosso e per scegliere il colore abbiamo fatto dei test per capire quale doveva essere la gradazione di rosso che desse credibilità al sangue inquadrato in bianco e nero. È stato un percorso interessante con una ricerca molto approfondita che ci ha fatto scoprire diverse cose.