«Un successo». Sprizzava soddisfazione da tutti i pori ieri il portavoce del Pentagono, John Kirby, commentando i risultati dei bombardamenti dal cielo e dal mare che gli Stati Uniti assieme a cinque alleati di ferro nel mondo arabo – Bahrain, Emirati, Giordania, Qatar e Arabia saudita – hanno compiuto nella notte tra lunedì e martedì e ieri contro uomini, depositi di munizioni, posti di blocco, automezzi, campi d’addestramento, centri di comando e controllo dello Stato Islamico in quattro regione siriane – Raqqa, Dayr az Zawr, al Hasakah e Abu Kamal – più i raid nei pressi di Kirkuk (Iraq). Senza dimenticare quelli, nei pressi di Aleppo, contro i miliziani del Khorasan, un gruppo di veterani di al Qaida di origine pakistana e afghana che «intendevano colpire in Occidente». I jihadisti uccisi sarebbero decine, oltre cento per alcune fonti. Di sicuro ci sono anche bambini e ragazzi e due donne, tra le 11 vittime civili dei raid.

 

I missili da crociera e a lunga gittata Tomahawk rappresentano una novità nella sviluppo della campagna contro lo Stato Islamico lanciata dalla coalizione guidata da Barack Obama. Ne sono stati lanciati 47. Ma Washington per questo primo attacco in Siria ha voluto esporre tutto il suo potenziale bellico facendo decollare per la prima missione di guerra anche i nuovi caccia F-22. Non è chiaro però se tra gli obiettivi colpiti ci siano anche i miliziani e postazioni del Fronte Al Nusra, il ramo siriano di al Qaeda, che sebbene figuri nell’elenco delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di stato era e resta un alleato di ferro dell’Esercito libero siriano, la milizia (in netta decadenza ma sempre ben finanziata dai nemici di Damasco e di Bashar Assad), e del Fronte Islamico (creato e sponsorizzato dall’Arabia saudita) che riunisce i jihadisti “non globali” e che hanno solo una “agenda siriana”. Un alleato scomodo che l’Amministrazione Obama sfiora soltanto perchè la sua dimostrata capacità di combattimento è fondamentale nella guerra contro i governativi siriani e i combattenti di Hezbollah schierati dalla parte di Damasco.

 

Si fonda su ambiguità profonde tutto quello che è avvenuto nelle ultime settimane e nelle ultime ore, da quando il presidente Obama si è messo l’elemetto per combattere il “califfato” in Iraq e Siria proclamato dall’emiro dello Stato Islamico Abu Bakr al Baghdadi. Ieri più parti cercavano di accreditare la tesi di una intesa segreta tra Washington e Damasco. Il ministero degli esteri siriano ha riferito che il suo paese è stato informato in anticipo degli Usa dei raid aerea. L’Amministrazione Obama ha confermato in parte escludendo categoricamente qualsiasi coordinamento con Assad. La tesi del nemico, la Siria, che gli Usa soltanto un anno fa volevano bombardare e che oggi sarebbe un alleato segreto nella lotta allo Stato Islamico, è priva di senso. Lo sviluppo della campagna di attacchi in Siria, dopo l’Iraq, alla quale accanto agli Usa prendono parte nemici giurati di Damasco, come Arabia saudita e Qatar, non è altro che una nuova fase della strategia volta proprio a rovesciare Bashar Assad.

 

Washington e le monarchie sunnite puntano ad indebolire e cacciare dalle sue posizioni lo Stato Islamico – che hanno sponsorizzato in molti modi in questi ultimi anni allo scopo di contenere il revival sciita nella regione e l’ascesa dell’Iran – nella speranza o nella convinzione che i territori lasciati liberi finiscano sotto il controllo dell’evanescente Coalizione Nazionale dell’opposizione siriana. Il via libera americano, attraverso l’approvazione di emendamenti poco ortodossi, di finanziamenti per centinaia di milioni di dollari destinati ad armare e pagare le milizie sunnite anti-Assad, spiega bene la strategia Usa. E non è certo quella di ricucire i rapporti con Damasco in nome della lotta al “nemico comune”.

 

Sull’ambiguità si regge anche la linea adottata da Israele nei confronti della Siria in guerra civile. Tel Aviv, approfittando del rafforzamento dell’Allenza Meridionale, che riunisce tutte le fazioni anti-Damasco (inclusa al Nusra), e del lento ma costante indebolimento a sud dell’esercito regolare siriano (impegnato su troppi fronti), cercherebbe, secondo alcune fonti, di arrivare a un compromesso politico e territoriale con i “ribelli”. Lo scopo sarebbe quello di realizzare una zona-cuscinetto in Siria che, in ogni caso lasci a Israele tutto il Golan occupato nel 1967. La visita in Israele nei giorni scorsi di Kamal al Labwani, un esponente dell’opposizione siriana, che già da tempo ha offerto il Golan a Israele in cambio di aiuto militare, dice molto su quanto si sta materializzando a sud. Ieri un missile Patriot israeliano ha abbattuto, per la prima volta dal 1985, un jet militare siriano entrato per errore e solo per qualche secondo nello spazio aereo di Israele.

 

Intanto se la jihad globale in queste ore accusa il colpo subito in Siria allo stesso tempo continua a lanciare la sua sfida. I miliziani dello Stato Islamico hanno pubblicato il secondo video dell’ostaggio britannico John Cantlie. Il giornalista anche in questa occasione ripete che i Paesi occidentali hanno sottovalutato la forza e lo zelo del loro oppositore e che vanno incontro a un ”caos potenziale” come quello in Vietnam.