«L’animazione non è un genere. È un medium. E il passo uno è la forma più pura di animazione perché tra l’artista e il pupazzo non c’è nessun filtro». Con questa dichiarazione d’amore, Guillermo Del Toro ha dato il via alla prima newyorkese del suo Pinocchio, ospitata al Museum of Modern Art dove, il weekend scorso, si è aperta anche un’ampia mostra dedicata all’ultimo film del regista messicano, accompagnata da una retrospettiva dei suoi film e da una carte-blanche. Dopo (tra gli altri) Disney, Comencini, Benigni, Steven Spielberg, Matteo Garrone e, solo qualche mese fa, Robert Zemeckis, Del Toro affronta Collodi in totale libertà, con un salto in avanti nel tempo (il libro è uscito nel 1883), all’Italia degli anni Venti. È lo stesso periodo storico in cui aveva ambientato uno dei suoi film più personali e più belli, Il labirinto del fauno, con cui

Del Toro sul set

Guillermo Del Toro’s Pinocchio ha molto in comune – il fascismo usato come sfondo storico, ma anche in chiave metaforica, il valore della disubbidienza contro il conformismo e la repressione; il potere e la malinconia dell’essere diversi; la presenza «organica» della morte nel racconto, il rapporto padre/figlio…

INSIEME a citazioni esplicite di Il labirinto del fauno, altri film di Del Toro vengono evocati qua e là in Pinocchio (cercateli per esempio nei disegni delle vetrate della chiesa, dove Geppetto costruisce un gigantesco crocifisso), a prova di quando la storia del burattino di Collodi sia da sempre intimamente legata alle ossessioni dell’autore di La forma dell’acqua. Non a caso, ha detto lui al MoMA, affiancato da Mark Gustafson (specialista di animazione a passo uno, collaboratore di Wes Anderson su Fantastic Mr. Fox e qui co-regista), il film è stato in divenire per quindici anni.
Alla fine – come era stato per Cuaron, Scorsese, Inarritu, Fincher…- per realizzare questo «progetto della vita» ci sono volute le tasche di Netflix, con cui Del Toro ha già lavorato molto per la Tv (le serie Trollhunters e, più recente Cabinet of Curiosities, un progetto antologico con episodi diretti tra gli altri da Jennifer Kent, Panos Cosmatos e Ana Lili Amirpour). Pare che – sempre prodotto da Netflix – all’orizzonte ci sia anche un Frankenstein.
Pinocchio ha molto in comune con il mostro di Mary Shelley e le loro affinità elettive si vedono bene nella bella scena in cui, il burattino –furiosamente e rudemente scolpito da Geppetto, in una notte di dolorosa ubriachezza – «si sveglia» e inizia a muoversi devastando allegramente il laboratorio del falegname, l’antitesi del bambino ubbidiente e giudizioso che Geppetto adorava e ha perso in un bombardamento. Nell’arco del film, il vecchio falegname cercherà invano di ritrovare quel bambino modello nell’anarchico Pinocchio che, a dispetto dei desideri del papà e del grillo parlante che abita nel suo cuore di legno, si fa sedurre dalle ambizioni dello showbusiness,

Una foto della mostra

incarnato dal burattinaio Conte Volpe.
Gran parte della bellezza di questa reinterpretazione di Collodi, che a tratti accenna anche al cartoon di Walt Disney, è l’amore palpabilissimo per l’animazione passo uno – tecnica che Del Toro praticava da giovane e aveva sperimentato in alcuni spot pubblicitari. Sarebbe stato in passo uno anche il suo primo lungometraggio, ha raccontato in questi giorni, se il laboratorio della casa di produzione che aveva fondato con degli amici, e dove erano custoditi i pupazzi per il film, non fosse stato rapinato e distrutto. È così che il suo primo lungo è diventato, invece, Cronos. Rispetto ai fotogrammi pienissimi, resi misteriosi da angoli di buio nero inchiostro e ricchi di fantasmagorie pittoriche a cui ci ha abituati Del Toro, Pinocchio è un film non solo luminoso ma quasi austero. La luce, i colori, la composizione delle inquadrature e dei set sono ideati per valorizzare al massimo i pupazzi, i loro movimenti e le espressioni dei personaggi, e il lavoro degli animatori.

LA MOSTRA su Pinocchio che occupa tre gallerie del MoMA e continua nel seminterrato è proprio un omaggio a quel lavoro raffinatissimo e paziente. Al cuore di Guillermo Del Toro: Crafting Pinocchio – un sequel naturale delle mostre storiche che il Museo aveva dedicato alla Pixar e a Tim Burton – è infatti il process del film. Interi set modellini, pupazzi di tutte le dimensioni con i meccanismi scoperti, i calchi bellissimi da cui sono stati ricavati, gli studi sulle visualizzazioni dei personaggi e delle creature sono esposti in tutta la loro matericità, gloria meccanica e bellezza artigianale, in una celebrazione del backstage che, in questo caso, non è meno magico del flusso delle immagini sullo schermo.