Si legge come un romanzo. Quante volte l’abbiamo detto? Ma questa volta è davvero così. Come sinfonia di Pino Donaggio e Anton Giulio Mancino, appena uscito da Baldini+Castoldi (pp. 427, euro 20,00), prefazione di Terence Hill, è un libro bellissimo, tra saggio e racconto, biografia e autobiografia, che si legge tutto d’un fiato come la rievocazione al presente, vivacissima e appassionata, di una grande avventura umana e musicale.

Sorride sotto i baffi Giuseppe detto Pino – classe 1941, compirà ottant’anni il 24 novembre prossimo – ripensando alle temerarie imprese di tanti anni fa, che si perdono nella memoria del veneziano innamorato di Venezia, nel raccontare con riluttante partecipazione a Anton Giulio i flash della sua vita nello studio sul Canal Grande.

Il rapporto con la sua città è assoluto, appena sfiorato dal brivido della scomparsa impossibile, come canta in Concerto per Venezia (1970): «Amo Venezia come se / fosse una donna, forse più/ Se m’allontano solo un po’ / io penso a casa, io penso a lei / Il mondo sa che tu non puoi / non puoi andartene così / I tuoi palazzi e le tue chiese, / tutta una storia, dove andrà ? / Venezia muore sempre un po’, / ma il suo concerto, quello no, / perché altrimenti forse potrei / morire anch’io insieme a lei».

Donaggio è nato in realtà a Burano, dove continua a tornare per tutta la vita, affascinato dal paesaggio dell’isola vicino a Venezia dalle case dai mille colori, dove abitavano i parenti di sua madre con cui andava a pescare: «Siamo tutti di Burano. Avrò avuto sei o sette anni quando ho cominciato a uscire con nonno per andare a pescare di notte, dormendo sotto coperta e mangiando il pesce appena pescato».

Nel 1952 a undici anni entra al Conservatorio «Benedetto Marcello» di Venezia ancora con i calzoni corti, cominciando con il violino più piccolo per passare poi a quello normale. «Non facevo altro che studiare violino: quattro ore al giorno nel salottino di casa. Moighea, che ti fa’ svegiar i morti, mi gridavano dalla strada». Si considera giustamente figlio d’arte, venendo da una dinastia di musicisti: «Nonno Attilio suonava la fisarmonica. Aveva tre figli, tutti e tre musicisti: Italo, mio padre, suonava il violino, mio zio Gianni la fisarmonica, zio Virgilio la batteria. Ci portava a suonare ai matrimoni nelle campagne. Cambiava i rulli delle canzoni nei pianoforti a puntine mentre suonavano nelle osterie. Una specie di anteprima del juke-box. Sono cresciuto con la musica leggera».

Al quarto anno passa al Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano per seguire il suo professore di violino. La famiglia non ha tanti soldi per fargli continuare gli studi fuori. Alla fine la spunta. Tra un pianto e l’altro, la madre gli trova un alloggio a Milano. Ma torna a casa il sabato, passa la domenica con i suoi, si esibisce nell’orchestrina del padre, fa il pendolare tra Romanza per violino e orchestra in Fa maggiore di Beethoven e le amate canzonette.

La stagione milanese è la più intensa e decisiva, quella in cui il giovane allievo di violino si afferma come cantautore. La sua prima canzone è Ho paura, scritta di getto nel ’59. L’esordio sembra trasformare (inconsciamente?) in messaggio d’amore le ansie, le tensioni, le inquietudini del momento. Sono gli anni in cui, firmato il contratto discografico con la Columbia, partecipa per una decina di volte al Festival di Sanremo, salendo col cuore in gola sul fatidico palco delle Feste del Casinó, senza mai vincere. Neppure con Come sinfonia nel ’61, l’anno dei cantautori, in cui c’erano tutti: Umberto Bindi, Adriano Celentano, Gino Paoli, Giorgio Gaber, Edoardo Vianello, Tony Renis.

L’exploit di Come sinfonia, cantata con gli occhi chiusi come quando ci si bacia, traduce il rapimento d’amore in esperienza sinfonica: «Sogno…/ sogno…/ e tu sei con me / Io vorrei, io vorrei / che questo sogno fosse realtà». Dopo aver cantato il pezzo al Festival, che entra in finale, già dal giorno dopo diventa famoso. Per tre settimane la canzone è in cima alla classifica italiana delle vendite. Nel ’65 Io che non vivo va ancora meglio.

È una canzone strepitosa, dedicata a Rita, oggi sua moglie dopo mezzo secolo di matrimonio e due figli, Cristiano e Betta: «Io che non vivo / Più di un’ora senza te / Come posso stare una vita / Senza te / Sei mia / Sei mia». Il motivo avrà un successo planetario perché la cantante inglese Dusty Springfield, che l’aveva sentita a Sanremo, se ne innamora e la rilancia, con il titolo cambiato in You Don’t Have to Say You, arrivando a oltre ottanta milioni di copie in un vertiginoso giro del mondo in cui ognuno la canta nella propria lingua. Fan impenitente del rock’n’roll, il 10 agosto 1970 Pino si commuove quando Io che non vivo, naturalmente con il testo inglese, entra nel repertorio di Elvis Presley per restarci.

Nel frattempo A Venezia … un dicembre rosso shocking inaugura nel ’73 la sua nuova carriera di compositore di colonne sonore. Il film dell’inglese Nicolas Roeg sfrutta il labirinto delle calli veneziane per costruire l’atmosfera ansiogena del thriller parapsicologico. Ma l’incontro fondamentale è quello con Brian De Palma, con cui fa parecchi film. Lavorando tra Venezia, Roma, Los Angeles, si anima nel corso degli anni il sorprendente sodalizio tra due quasi coetanei, tra il violinista di Burano e l’ipertecnologico di Philadelphia. Tutto comincia nel ’77 con Carrie. Lo sguardo di Satana, in cui rimpiazza Bernard Hermann. «Ma io ho il mio metodo», dice Pino, «per me i temi devono essere melodici. Cerco di addolcire il pubblico, di blandirlo. Rilassandosi, lo spettatore è inerme di fronte a quanto sta per succedere».

Vestito per uccidere (1980) – fiammeggiante e nevrotico – è il secondo momento della loro collaborazione, dove la scena del museo è uno dei pezzi più straordinari del compositore: «Parte da un tema in Sol minore, prima coi violini, poi torna con fiati e corni». È poi la volta di Blow Out (1981), con la partitura che De Palma preferisce su tutte: «Il tema principale è molto commovente. Sprigiona una grande emozione».

Omicidio a luci rosse (1984) è il virtuosistico omaggio all’immortale Finestra sul cortile, con la grande sequenza del telescope, dove la musica gioca sottilmente con l’immagine: «È stato il primo film della storia del cinema con una colonna sonora incisa con il sistema digitale». Le pagine dedicate alla collaborazione tra De Palma e Donaggio sono tra le più affascinanti del libro e aiutano a risalire alle ragioni del particolare interesse che Anton Giulio Mancino – un professore di cinema senza toga, ma anche un saggista di rara acutezza e originalità – nutre per questa grande coppia pronta a scommettere sul cinema-cinema, sul matrimonio indissolubile dell’immagine col suono.

Sospesa tra Italia e Usa, la filmografia delle colonne sonore del compositore veneziano raggiunge ormai l’ottantina di titoli, tra cui spiccano Joe Dante (Piraña), Lucio Fulci (Black Cat), Massimo Troisi e Roberto Benigni (Non ci resta che piangere), Giuseppe Ferrara (Il caso Moro), Michael Winner (Appuntamento con la morte), George A. Romero e Dario Argento (Due occhi diabolici), Gene Saks (Cin Cin), Pupi Avati (L’arcano incantatore). In uno slalom tra pratiche alte e pratiche basse, film e serie tv, che conferma la singolare duttilità di un compositore aperto alle vicende del cinema contemporaneo. Senza mai dimenticare l’esperienza indelebile della musica classica, che il violinista aveva metabolizzato una volta per sempre nelle aule dei Conservatori di Venezia e di Milano.