Detto con tutta franchezza, sentivamo realmente la mancanza di una nuova produzione Pink Floyd sapendo che Roger Waters da quella famiglia si è distaccato ormai da trent’anni, che il povero Richard Wright se ne è andato da questa terra da tempo e che Nick Mason e David Gilmour – gli ultimi intestari della ditta – non sembravano particolarmente interessati a rianimare il moribondo marchio?

Onestamente no, e speravamo che ne fosse consapevole la ‘coppia’ attuale intestataria della premiata ditta. E invece forse spinti da incalzanti pressioni della major a cui non pareva vero di lanciare sul mercato natalizio un ‘nuovo’ cadeaux griffato ‘fenicottero rosa’, o per dare chissà quale lustro ad alcune composizioni registrate vent’anni fa insieme al compianto Wright, eccoli arrivare nei negozi con The Endless river per quello che, assicurano, sarà il capitolo definitivo della Floyd factory.

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Peccato che questo – giusto per parafrasare l’ultimo atto trentun’anni fa dell’esperienza con Waters, del passato scintillante della band mantenga poco e nulla se non un certo ammiccamento al sound e ai timbri, a passaggi orchestrali che rimandano alle loro opere nei settanta. Si è detto trattarsi di materiale registrato all’epoca di The Division Bell, quindi poco più che tracce rielaborate in sola forma strumentale – tranne in un pezzo – che danno sempre quell’impressione di incompletezza, anche se Gilmour e Mason ci hanno lavorato sopra aggiungendo parti e strumenti negli ultimi due anni. Per fare un esempio, It’s what we do sembra uno strano e malriuscito incrocio tra Shine on you crazy diamond e Welcome to the machine.

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Anisina, pianoforte, chitarre arpeggiate, una tastiera che entra e sembra aprirsi su una frase ariosa; a qualcuno può riecheggiare Us and Them. Però il brano non decolla, mai. E si potrebbe continuare all’infinito. Se volete – pinkfloydiani convinti come il sottoscritto – continuare a farvi del male, ne esiste anche una versione deluxe contenente altri tredici minuti di musica strumentale. Assolutamente perdibili.