I riverberi di luce e acqua che scrivono la storia – fisica, sociale e sentimentale – di Venezia d’improvviso spariscono, inghiottiti da una notte che avvinghia lo sguardo e lo rende cieco. Fuori Punta della Dogana vibra un pieno giorno primaverile, ma dentro si è catapultati in un anfratto buio in cui tutti i sensi si allertano. La percezione è, da subito, alterata. Il primo incontro oscuro, intravisto, immaginato e infine esperito, è con il calco di un ventre umano gravido, si è raggrumato nella roccia lavica, una concrezione che racconta un inizio o una fine. C’è anche un organoide cerebrale, «reperto» di un’umanità che impara a evolversi nonostante la transitorietà del suo corpo che annaspa alla ricerca di sé, spogliato di qualsiasi identità riconoscibile.

È così che comincia il viaggio in quel «tempo fuori posto», scucito, fratturato, cui l’artista Pierre Huyghe (Parigi, 1962, vive in Cile) ci ha abituati con le sue incursioni nel cinema e nella finzione. L’itinerario è Liminal – come recita il titolo della mostra; si resta infatti sulla soglia di un labirinto-laboratorio pur inoltrandosi passo dopo passo in quegli inferi immaginati dall’autore, luoghi residuali di un passato che si capovolge in un futuro inatteso. Nello spazio reale, immerso in un surreale buio senza appigli per un orientamento rassicurante, si aggira un fantasma: ha il volto coperto da una maschera d’oro e articola suoni siderali in un linguaggio alieno, che si autogenera con l’intelligenza artificiale e tramite speciali sensori. Siamo nei dintorni di quell’epoca del disincanto narrata da Derrida nella sua «hauntology» (da Spettri di Marx, 1993), il «liminal» appunto del non essere che conduce al collassare del tempo e della sua linea razionale che segna la Storia.

«De-Extinction», 2014, Pinault collection, courtesy of the artist, Anna Lena films, Paris © Pierre Huyghe, by Siae 2023

In Pierre Huyghe, questo è un tema ricorrente – il ritorno della parvenza, il futuro impossibile ma opacamente corporeo, come fosse una profezia non inveratasi. La sua è una attitudine obliqua per interrogare la natura dell’arte, uscendo dai dilemmi esistenziali. «Tutti i lavori di questa specifica mostra rappresentano un dispositivo sensibile, sono un veicolo per accedere al possibile o all’impossibile, poiché per l’artista è fondamentale indagare ciò che sarebbe potuto essere e anche ciò che non potrà mai più essere. L’immersione proposta riguarda una zona dell’ignoto, che decentra l’umano e crea un mondo esterno radicale, dove ci percepiamo come estranei, scardinando l’idea che abbiamo di noi stessi. La sua è una finzione poetica, speculativa, quasi metafisica», spiega la curatrice di Liminal, Anne Stenne che insieme a Huyghe ha costruito il percorso espositivo della perturbanza nel ventre di Punta della Dogana (la mostra, realizzata in partenariato con il Leeum Museum of Art di Seul, dove approderà nel febbraio 2025, sarà visitabile in Laguna fino al 24 novembre), disseminando quella via Crucis apocalittica di opere già presenti nella collezione Pinault e di nuove creazioni. Huyghe, da bambino, era affascinato dai libri di biologia, dalle sfere del micro e macro, ma poi crescendo nella natura ha sempre cercato una via alternativa

Human mask, il film centrale di questo dantesco incedere fra acquari che riportano magicamente la vita ai suoi esordi sul pianeta con i pesci ciechi delle caverne, i filmati dei riti funebri di enigmatiche civiltà extraterrestri nel deserto di Atacama (lo stesso in cui Christian Boltanski, con Animitas fiutava le residuali presenze umane, lì dove Pinochet aveva decretato la morte di centinaia di desaparecidos) e gli insetti cristallizzati in accoppiamento imprigionati in gocce d’ambra di ere giurassiche, concorrono a quella percezione distopica di sé che estingue il nostro tempo per come lo abbiamo conosciuto fin qui.

Una scimmia-bambina, con il volto coperto da una maschera che somiglia a quelle del teatro No giapponese si aggira inquieta nei locali di un ristorante abbandonato e disastrato dopo lo tsunami di Fukushima. Sembra essere l’unica creatura sopravvissuta in una città sconvolta e, visibilmente spaesata, continua a compiere i piccoli compiti che le avevano assegnato i suoi padroni prima del «day after». A voltrte, pensierosa, attende in disparte istruzioni che non arriveranno mai, rimodellando il suo tempo in un ordine imperscrutabile all’osservatore.

Ha forse subito una mutazione radioattiva? «La scimmia – sostiene Huyghe – intrappolata in una rappresentazione umana finisce per diventare l’unica mediatrice riconoscibile»,è lei il solo legame possibile con la nostra (ex) specie, presenza già archeologica.

Racconta l’artista che l’idea per il video gli è venuta da un fatto reale quando, incuriosito, ha scoperto che davvero in Giappone, diversi ristoranti utilizzano i primati addestrati per servire i loro clienti ai tavoli. Ma la protagonista del filmato, con quell’umanità bestiale e di scarto, le sue pause meditative e l’alienazione che la abita, si trasforma anche in una potente accusa della produttività a tutti i costi, una sorta di ritorno dei Tempi moderni di chapliniana memoria, che però, in un paesaggio azzerato e inospitale, cancella gli ultimi rigurgiti di ribellione.