Come vorrei poter chiacchierare ancora con Piero dopo aver letto questo libro che raccoglie tanti suoi scritti di anni anche molto lontani e che però io, come credo tanti di voi, non avevo mai letto! (Piero Manni, Millanta facce. Racconti dal Salento, pp. 320, euro 16, Manni editore).
Per me Piero Manni era innanzitutto un editore, o meglio, capofila di una famiglia editrice che pur operando dall’estrema periferia del nostro paese, Lecce ,di cui porta netto il segno, è stata però sempre, e continua ad essere, dotata di una intuizione cosmopolita che non l’ha mai fatta sentire come provinciale. Poi, anzi prima, Piero era per me un comunista. Cui aggiungo subito l’aggettivo «salentino», perché i comunisti migliori sono quelli che pur essendo internazionalisti per principio portano con sé l’odore della loro terra.

QUESTE PAGINE mi hanno fatto ora scoprire tante più cose, non solo dell’identità della sua regione, ma anche di lui stesso, una presenza che rimane centrale pure quando racconta dell’altro. Un approccio costante ed essenziale per cogliere meglio quanto gli è attorno. Straordinario da questo punto di vista è il primo racconto – «Taranta noir» – nel quale, se non ci fosse anche lui nella narrazione, non risulterebbe così comprensibile la figura struggente della Niura.

VORREI POTER CHIACCHIERARE con Piero, dicevo all’inizio, per soddisfare tante curiosità che ho sempre avuto sulla Puglia, regione scoperta da nordica ma poi frequentata tantissimo. È lì, a Brindisi, che ho fatto il mio battesimo del fuoco, il primo comizio da un altissimo palco montato nella piazza. Poi per esser stata catapultata lì a fare svariate campagne elettorali, la prima candidato capolista nientemeno che il veneto Bruno Trentin, a sottolineare che adesso anche a Taranto era nata una grande acciaieria come quelle del nord. Ciononostante Trentin restava «il forestiero», per via di quel suo luogo di nascita francese (causa dell’esilio di suo padre) che compariva sui cartelloni elettorali. Era comunque assai rispettato perché dirigente «del Fiom», società del tutto sconosciuta ma, tutti ne erano certi, molto importante.

Avrei voluto riflettere su quel tempo che fu l’inizio di un mutamento travolgente delle campagne e delle città pugliesi per poter capire meglio quanto ho adesso rintracciato nei suoi racconti, il persistere della appartenenza alla propria specifica storia che non si è fatta liquidare dalla modernità. A cominciare dal dialetto, che è sostanza non casuale del libro e si capisce e si apprezza nonostante la difficoltà di dover scorrere ad ogni pagina le righe per trovare in nota la traduzione in italiano.

HA RAGIONE Antonio Prete quando dice, nella preziosa postfazione al libro, che il dialetto in questo quadro non è folklore, ma aiuto nell’esplorazione, che senza quel parlare non si potrebbe compiere. E che dunque è lì non per vezzo, ma come componente di un vero saggio antropologico, sia pure invisibile, che è quanto Piero ha voluto scrivere sulla sua terra.
Ed è così che anche nel capitolo tutto in italiano – «Senza capo né coda» (che è poi la bozza di un romanzo mai scritto) – alla fine irrompono «imbulitturibili», «cencioli», «zzinzuli», «ll lamento languido che ti molceva il cuore».

Perché la memoria della propria storia è preziosa, e però – come scrive in «Smemoranze»- non può essere imbalsamata, pena l’immobilità. Anche se resta sempre difficile stabilire quanto in sé stessi è natura e perciò immodificabile e quanto è naturalmente cambiato. Descrivere le relazioni reciproche ci dà la traccia dello svolgimento degli eventi. Perciò sono importanti i «cantastorie», perché raccontare è un dovere.
E Piero Manni era un meraviglioso cantastorie.