«Ormai i sogni sono solo sogni. La realtà è questa non siamo più piccoli» dice Desireé all’amico Daniel: hanno solo 14 anni ma i desideri, il tormentone su «cosa farai da grande», sembrano esserseli già lasciati alle spalle. Sono due dei «protagonisti», insieme al compagno di classe Simone e al loro professore Giovanni Mannara, di La nostra strada, il documentario di Piero Li Donni ambientato nel quartiere La Zisa di Palermo che passa oggi in streaming al Biografilm Festival, dove è in concorso. I tre ragazzi sono in terza media, l’anno successivo dovrebbe iniziare un nuovo ciclo di studi: almeno fino ai 16 anni è obbligatorio, insiste il professore che cerca di farli avvicinare ai testi di studio rapportandoli alla loro vita quotidiana. Ma la realtà del loro quartiere sembra trascinarli inesorabilmente altrove: un anno dopo l’esame Desireé e Simone hanno già cominciato a lavorare.

Come è nato il progetto del film?
Quando qualche anno fa sono tornato a Palermo – dove sono nato e cresciuto – non ci vivevo ormai da molto tempo, e volevo fare un film che mi consentisse di ristabilire un rapporto con la città. E La Zisa è un quartiere rimasto fermo agli anni Novanta, quelli in cui ci vivevo: ci sono sempre i banchi di frutta per strada, i negozi di ferro, i bombolai… Ci aveva lavorato anche Danilo Dolci per realizzare Inchiesta a Palermo, un libro che racconta la Palermo post seconda guerra mondiale: una città devastata. La Zisa però non è mai stata bombardata e nel corso degli anni non ha subito stravolgimenti urbanistici, quindi ha attraversato il Novecento sempre uguale a se stessa: mi sembrava il posto ideale per ricostruire il mio rapporto con la città.

E perché ha scelto di lavorare con gli studenti delle medie?
Volevo fare un film corale proprio per poter raccontare il quartiere. Mi sono concentrato sulla crescita, sui meccanismi attraverso i quali questi ragazzi e ragazze passano dall’infanzia all’adolescenza, e che li risucchiano proprio nella dinamica del quartiere. Ho incontrato la classe quando ancora erano in seconda media: i primi 3 mesi seguivo le lezioni dall’ultimo banco e i ragazzi pensavano che fossi una sorta di poliziotto della preside. Poi gli ho spiegato che l’anno successivo avrei realizzato un film con loro e abbiamo iniziato a stabilire un rapporto. Quando ho iniziato a girare lavoravo con prudenza perché volevo tenermi lontano dagli stereotipi sul «quartiere difficile», da cui siamo bombardati continuamente.

I protagonisti sembrano imprigionati in un destino già scritto.
Dal film emerge l’eterno conflitto fra la legge dello Stato e quella del rione – a farne le spese è specialmente l’istruzione: la scuola pubblica non gode più, specialmente in questi quartieri, del prestigio che aveva una volta, e l’istruzione resta schiacciata e incapace di assolvere al proprio compito. Nei quartieri come La Zisa non c’è mobilità sociale, i ragazzi si sposano giovanissimi, a 14 anni iniziano a fare lavori da 300 euro al mese, e in questo modo non hanno neanche l’opportunità di crescere professionalmente. E nell’osservazione di questo momento di passaggio fra l’infanzia e l’adolescenza si assiste, come al rallentatore, alla trasformazione della speranza in un incubo. Ma questo interroga anche la nostra posizione di spettatori: chi siamo noi per poterli giudicare? Girando il film non ho mai percepito la presenza della mafia, ma mi è apparsa chiara la strada che porta in quella direzione.

Dopo mesi di didattica a distanza a causa della pandemia, guardando «La nostra strada» non si può fare a meno di pensare agli studenti abbandonati a se stessi.
Non a caso il presidente Mattarella ha nominato cavaliera al merito la preside di una scuola dello Zen di Palermo che aveva fatto un appello per dare ai suoi allievi pc e tablet con cui seguire la didattica a distanza. Anche il professor Mannara ha fatto lezione a distanza, ma i suoi alunni per seguire le lezioni potevano solo usare i telefonini dei genitori, in case minuscole e dove vivono in tanti. Per ragazzi come loro una situazione come questa è molto pericolosa: non fa che aumentare le diseguaglianze.