Nel 2014 al Poldi Pezzoli furono chiamati a raccolta, da quel capolavoro che è l’emblema stesso del museo, altri tre ritratti muliebri in tutto simili (oggi a Firenze, Berlino e New York) per dar vita alla mostra Le dame dei Pollaiolo. Per la prima volta si mettevano a confronto dipinti che pur non appartenendo a un ciclo unitario erano divenuti, nella storia degli studi, un corpus talmente compatto da esigere, quasi, il confronto diretto: mostre nate per riunire siffatti nuclei di opere sono, già in partenza, tra le migliori – e le più necessarie – che si possano organizzare.

A dieci anni di distanza lo stesso museo si è fatto promotore per un’impresa simile, ovvero la ricostruzione ideale di un polittico di Piero della Francesca, di cui ci rimangono quattro tavole principali, divise anche in questo caso tra il Poldi Pezzoli e musei di tutto il mondo (Londra, New York e Lisbona). E non si può non rimarcare come in queste due occasioni sia partita dall’Italia – anzi, sempre dal Poldi Pezzoli – l’iniziativa. D’altronde il precedente più diretto per la mostra oggi in corso a Milano (fino al 24 giugno, a cura di Machtelt Brüggen Israëls con Nathaniel Silver) è quella, ancora più memorabile e ambiziosa, che nel 2020 ha visto confluire in Palazzo Fava a Bologna tutte le tavole appartenenti al Polittico Griffoni già in San Petronio, opera di Francesco del Cossa e Ercole de’ Roberti, oggi vanto di tanti tra i maggiori musei del mondo, dalle National Gallery di Londra e Washington al Louvre, fino alla Pinacoteca Vaticana. Le grandi mostre su Mantegna e Reni, per fare solo due esempi più o meno recenti, si sono tenute al Louvre (2006) e al Prado (2023), mentre da noi si organizzavano eventi espositivi in tono minore su quegli stessi artisti; ma fortunatamente ci sono ancora occasioni in cui, da Bologna a Milano, si trovano le forze, intellettuali ed economiche, per tenere il passo con le capitali europee.

La storia del polittico eseguito da Piero per Sant’Agostino a Sansepolcro è particolarmente sfortunata: già nel 1555 veniva trasferito in un’altra chiesa, dove gli Agostiniani si trasferirono per lasciare il loro primo insediamento alle Clarisse. Nel 1622 un collezionista locale, Ducci, ne otteneva i quattro pannelli laterali del registro principale in cambio dell’impegno a commissionare al modesto Lancisi – di cui oggi non conosciamo nulla – due nuove figure di santi (perdute). La rimozione dagli altari dei polittici tre-quattrocenteschi, al tempo della Controriforma, è un fenomeno diffuso, ma in questo caso sembra evidente che Ducci avesse tutto l’interesse ad acquistare quelle tavole di una grande gloria locale, e non a caso in una successiva descrizione di quella stessa collezione (1680) si specificava come i dipinti, giustamente riferiti a Piero, fossero stati citati da Vasari nelle sue Vite: considerato il crollo di conoscenze e interesse per la pittura del Quattrocento che si registra già dalla fine del Cinquecento, si tratta di un dato rilevante – si ricordi che nel 1644, nella collezione Farnese a Roma, i pannelli del polittico di Masaccio e Masolino provenienti da Santa Maria Maggiore venivano scambiati per opere di Perin del Vaga!

Quello in Sant’Agostino era un polittico di forma sostanzialmente attardata, poiché la carpenteria lignea (perduta) risaliva a molti anni prima. Era in origine costituito anche da tanti pannelli minori – in tutto una trentina – che sono in gran parte perduti. Già dall’inizio del Seicento non si ha più nessuna notizia di quello centrale, probabilmente un’ Incoronazione di Maria, laddove almeno la Crocefissione della predella nel 1680 era ancora insieme ai quattro santi principali (rimangono anche tre figure di santi e sante, tutte in mostra). A seguito delle vicende collezionistiche otto-novecentesche, i quattro pannelli principali si presentano oggi con cornici diverse, che per questioni conservative non possono essere rimosse: si è quindi scelto di presentare i dipinti scalati nello spazio, per evocare l’assenza del pannello centrale e dissimulare l’ingombrante presenza di quelle inopportune cornici.

In origine Piero aveva cercato di superare i limiti imposti dalla già datata macchina della carpenteria unificando lo spazio abitato dalle quattro nobili e immobili figure di santi attraverso lo sfondo architettonico e con la soppressione delle colonnine che generalmente dividevano gli scomparti nei polittici. Il maestro, in ogni caso, si era trovato ad avere a che fare con una committenza, a quelle date, senz’altro ormai provinciale, la cui complessa vicenda, documentatissima, è stata magistralmente ricostruita da Israëls e Silver. La carpenteria del polittico risaliva al 1426-’30 ed era stata ordinata per la chiesa di San Francesco sempre a Sansepolcro; il lavoro di pittura era stato commissionato ad Antonio d’Anghiari, presso il quale lavorava allora il giovanissimo Piero; Antonio però non eseguì l’opera nei tempi previsti, e venne poi esonerato. Quel polittico privo di pittura servì poi da modello per uno nuovo, ma in questo caso bifronte, commissionato sempre per San Francesco al senese Sassetta (anch’esso smembrato), e venne infine venduto nel 1451 a colui che, destinandolo a Sant’Agostino, nel 1454 ne commissionò la pittura – finalmente con successo – a Piero.

Intanto, però, questi era divenuto un maestro di fama sovraregionale, e sembra procrastinasse l’esecuzione dell’opera fino al 1468-’69 circa. A quell’altezza cronologica una struttura simile sarebbe sembrata assai antiquata non solo a Firenze, ma anche altrove: si pensi alla Pala di san Zeno a Verona di Mantegna (1456-’59) o alla Pala Pesaro di Giovanni Bellini (forse 1475-’80 circa). Lo stesso Piero, nella fenomenale Pala di Brera eseguita poco dopo – 1470 circa – ma per quello che era allora un centro d’avanguardia, l’Urbino di Federico da Montefeltro, licenziò un capolavoro ben più maturo per invenzione compositiva e ricerca prospettica.

Con quel caposaldo della pittura rinascimentale il polittico agostiniano ha comunque in comune l’uso innovativo della pittura a olio, che Piero doveva aver presto cominciato a conoscere lavorando da giovane a Firenze accanto a Domenico Veneziano. Quel medium consentì a Piero dei passaggi indimenticabili, soprattutto nel Sant’Agostino di Lisbona, dove la trasparenza del pastorale in cristallo di rocca è evocata magistralmente; e dove gli episodi ricamati nel piviale strappavano l’applauso già in quella descrizione del 1680: «il cui piviale storiato è meraviglioso».