La monografia di Roberto Longhi su Piero della Francesca è uno dei suoi libri più famosi e meno conosciuti in profondità: questa antitesi forse non ha molto senso comune anche se vera. Uno dei motivi che la giustificano spiega la ragione per cui Longhi è meno conosciuto nelle Americhe e in buona parte del mondo colto del Nord (e addirittura in Italia). Lo stile della sua ammirabile prosa è difficile. Osai dirlo personalmente al maestro col quale parlavo spesso in spagnolo, lingua che conosceva bene. Gli spiegai come, dopo alcuni anni in Italia, ero riuscito a capire i libretti delle opere di Verdi e di Bellini, e persino quel che ci fece leggere Delio Cantimori in uno dei suoi corsi su Paolo Sarpi che implicavano scritti religiosi dell’epoca. Poi provai a tradurre uno dei saggi longhiani che più amavo, il Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946).

Longhi era contentissimo ma la mia era una pia illusione. Per quanto il testo sui veneziani sia più facile del Piero non riuscii a tradurlo – a mala pena una quindicina di pagine che mi fu impossibile superare. In realtà la leggenda che spagnolo e italiano siano lingue gemelle è una fantasia come lo è la supposta vicinanza del carattere e dei sentimenti personali delle due popolazioni. Possiamo amarci molto ma a dire il vero quasi mai ci capiamo. Forse uno spagnolo può vivere meglio in Italia che nel mondo iberico adattandosi con maggior facilità al modus vivendi della penisola lunga e stretta, e del tutto mediterranea, che a quello della penisola pentagonale abitata dai discendenti dei Goti e dei Mori. Soltanto i siciliani si avvicinano agli spagnoli perché solo loro hanno avuto in comune un lungo dominio arabo, più prolungato di qualche secolo in Spagna. Il lato negro o indio dei sudamericani rende il linguaggio maggiormente complesso.

Devo confessare che la fatica più onerosa della mia vita fu quella di imparare a scrivere correttamente l’italiano. Per mia fortuna avevo vent’anni quando conobbi Longhi e fui costretto a leggere la sua lingua meravigliosa. Il prezzo però fu altissimo: l’impoverimento del mio spagnolo materno, al punto che non sono neppure ora capace di emulare la straordinaria traduzione compiuta da José Ramón Monreal del Piero della Francesca del Longhi basata sulla versione originale del 1927 con aggiunte successive (pp. 184, e 21,00, Editorial Elba, Barcellona, 2021).

Roberto Longhi in una rara fotografia con la gallega (copricapo spagnolo) già di Barbara Briganti

Questo piccolo volume si arricchisce di un brillante prologo dello storico dell’arte Artur Ramón, allievo di un amico di Longhi, José Milicua, che fu anche redattore della rivista «Paragone» e curò una eccellente mostra della collezione Longhi in Spagna. Artur Ramón spiega agli spagnoli il libro su Piero. Un artista che per quanto mirabile sia, non è noto a tutti come non lo è a causa della difficoltà della sua lingua, lo si accennava, lo stesso Longhi.
Ramón scrive come il testo longhiano sia un work in progress che nasce da un saggio del 1914 modificato completamente nella edizione del 1927, in una seconda edizione del 1942, seguita dalle rielaborazioni del 1962 e 1963. Informa che, come già sapevo bene dai miei anni universitari, il professore era un grande imitatore, qualità che Ramón considera tipica dei grandi storici dell’arte, che imitando riescono a rendere in parole la metamorfosi dell’arte in letteratura. Un traduttore, a suo avviso, diventa un interprete musicale, paragone del tutto convincente quando il traduttore – come quello che ha tradotto il presente libro – non è un traditore.

Persino l’allievo rivale di Longhi, Federico Zeri, non ha mai negato le grandi doti letterarie del maestro, e lo stesso ha fatto Albero Arbasino il quale non si curava molto di occhio e di connoisseurship quanto di lingua e di stile. Longhi, infatti, fu sempre un impareggiabile conoscitore, forse il solo ad essere veramente rispettato dall’inventore del mestiere, Bernard Berenson, che fu uno dei primi ad occuparsi di Piero della Francesca con tatto e intelligenza.

Ma lasciamo finire quanto sto dicendo allo stesso Arbasino: «accanto a Gadda, Roberto Longhi rimane il miglior fabbro della prosa italiana del nostro Novecento». Proprio per questo resta impossibile, come accade con Gadda, tradurre Longhi senza diminuirlo in un’altra lingua: è prosa, quella di entrambi, ma una prosa così profonda, così perfetta da diventare inafferrabile, indiscutibile come un verso di Mallarmé.

Come si fa a dire con altre parole in qualunque lingua quel che è l’azur: De l’éternel azur la sereine ironie/ accable indolemment comme les fleurs?