Con Pierluigi Tabasso, scomparso sabato a Roma (ieri i funerali) manda la sigla di coda uno degli ultimi visionari della radiofonia italiana. Ne converrà forse chi è cresciuto mentre giravano i “dischi a Mach II” di Supersonic (1972) e poi ha sacrificato ore e ore di sonno per ascoltare le dirette di Stereonotte (dal 1982). A Tabasso glielo fecero fare convinti che tanto non avrebbe funzionato, mettendogli a disposizione il peggio che c’era dal punto di vista tecnico, alla periferia dell’impero Rai. Ma fu chiaro fin da subito che non era un programma solo per fornai, camionisti e metronotte. La sete di buona musica corredata di informazioni minimamente sensate era tanta, così quel che altrove poteva pure essere normale, un programma radiofonico live con uno speaker che sta lì e condivide con te la nottata, sapendo usare i dischi della sua collezione con una certa passione e un po’ di competenza, in Italia si trasformò subito in un piccolo miracolo. Anche di ascolti.

A Tabasso non interessava che uno avesse la voce sexy o la conoscenza giusta, né erano richieste esperienza radiofonica o confidenza col microfono. Bastava saper ascoltare la musica giusta (semplificando e sottraendo: blues, jazz, rock, new wave, soul, reggae, elettronica, musica afro-latina, canzone d’autore e suoni neo-tradizionali) e aver voglia di condividerla col pubblico in uno spazio ancora vergine, la notte di RadioRai. Pescò le sue voci sia dalle emittenti libere che dalle riviste musicali, età media molto bassa non solo per l’epoca, in qualche caso ragazzini che mischiavano dischi nelle radio di movimento, come chi scrive. Li mandava al microfono, sconvolgeva loro i bioritmi e un po’ la vita, gli dava la possibilità di esprimersi in totale libertà e di entrare in una grande famiglia che all’altro capo del tavolo o dell’onda vedeva seduti gli ascoltatori. Da qui la responsabilità di tener svegli e allo stesso tempo accompagnare al sonno, svegliare chi si alza all’alba, offrire le ore piccole a chi rimaneva pitonato all’ascolto, dopo la sigla del maestro Colombo. È banale ricordarlo, ma in era pre-internet un programma così, soprattutto per chi viveva nei piccoli centri, era informazione pura in bella calligrafia, associata a suoni spesso inauditi, che o erano interessanti o lo diventavano una volta messi in sequenza, a seconda delle storie che ti consentivano di raccontare. E in questo combinato disposto era un’informazione pressoché introvabile altrove, in Italia.

Pierluigi Tabasso
Pierluigi Tabasso

Per questo si è un po’ indulgenti con il ricordo di Stereonotte, che è ancora cocciutamente vivo e da poco si avvale di un suo “archivio storico”, naturalmente frutto non della Rai ma degli appassionati di radiofonia. E ai “reduci” si può perdonare anche quel pizzico di retorica nottambula e di mitologia della frontiera, manco Via Po – dove erano delocalizzati gli studi a Roma – fosse Timbuctù, nella misura in cui emerge anche dai ricordi più brillanti di quella stagione da parte di altri ex conduttori (vedi Enrico Sisti su repubblica.it e Paolo De Bernardin su lastampa.it), insieme allo sconfinato affetto che un “capo” come lui sapeva conquistarsi.

Poco incline al riposizionamento politico, esplicitamente ostile al modo in cui RadioRai tendeva sempre più a scimmiottare i suoni e le modalità dei network commerciali, Tabasso venne silenziato alla prima offensiva berlusconiana di metà anni Novanta e messo in una stanza a “guardare il muro”. Con la sua creatura provarono a fare i furbi, mantenendo l’allure modello the nightfly, il titolo e persino la sigla, insomma svuotando il programma “solo” dei suoi contenuti. Ci furono anche un paio di interrogazioni parlamentari, che caderono nel vuoto. Ma tanto dall’altra parte della radio non ci cascò nessuno.