La sera in via Abbadesse c’era una festa, con i giovani scrittori che Pier Vittorio scovava e curava; c’erano i suoi coetanei e come lui già affermati; c’era Fernanda Pivano che Pier coccolava come fosse sua nonna (salvo che il meraviglioso cammeo appuntato sull’abito era un regalo di Alice Toklas); c’era cibo, alcol, fumo, musica, voci via via più alte, nuovi arrivati. Una festa in stile Tondelli, gli ospiti buttati su divani e poltrone con l’aria di chi si diverte più del padrone di casa, che s’aggirava con un bicchiere in mano svettando sugli altri con quel fare timido, di ragazzo un po’ goffo capitato lì per caso dalla provincia, che mai l’abbandonava.

Avevo conosciuto Pier Vittorio Tondelli nei primi Ottanta. Altri libertini era già deflagrato nella landa della letteratura italiana, non ancora razziata dai cannibali e non più patrimonio delle avanguardie, e le schegge schizzavano in giro ferendo i moralisti che rispondevano con denunce di oscenità. Oltre a svelarci la vita segreta dei nostri fratelli minori, a noi trentenni aprì le porte di un altro modo di fare narrativa: ne eravamo affascinati e un po’ intimoriti. Esattamente come mi sentivo la prima volta che incontrai Pier, in un tristissimo ristorante egiziano di Porta Venezia. Era scontroso, poco propenso alla conversazione; ma si rianimò più tardi con alcol e mahjong, introducendoci ai misteri dell’arte di quel gioco nella Bassa.

Sarà stata la cultura degli Ottanta, ma ogni volta che ripenso a Pier Vittorio l’ambientazione è una festa. Oppure un teatro, un concerto. Ho la sensazione – a posteriori – di aver vissuto weekend postmoderni per anni interi. Qualche sera, però, in via Abbadesse ci trovavamo in pochi, forse reduci da un teatro. E allora si chiacchierava di ciò che avevamo visto, di letteratura, di cinema. Non erano salotti letterari, poteva succedere che partisse un vhs porno e l’intellò che era in noi andava a farsi maledire. C’era in Pier qualcosa che metteva in evidenza una personalità non comune, un pensiero obliquo figlio del suo tempo eppure disancorato dalla pochezza di quegli anni. Apprezzavo la sua discrezione, una certa ritrosia che qualcuno scambiava per malmostosità. Quel ragazzo generoso, dai grandi occhiali e dal bel sorriso mi andava a genio.

Elettrizzato e spaventato («proviamo») quando decise di venire a vivere a Milano: era il giovane scrittore, una promessa già mantenuta – sebbene un giudizio di «romanzo di consumo» lo avesse ferito. Il senno di poi smentì quei critici, Rimini era il romanzo di un’epoca, quegli anni Ottanta che, declinati alla newyorkese, scatenavano orgasmi letterari in quegli stessi soloni, incapaci di trovarne la potenza a casa nostra. «A Silvia mia ’nuova’ amica che spero di conoscere meglio» diceva la dedica sulla mia copia: 5 luglio 1985, la sera del party al felliniano Grand Hotel. I suoi pensieri non erano mai disgiunti dai moti del cuore, nella vita come nella scrittura; c’era sempre un tremore, una fragilità.

Prendiamo Viaggio a Grasse. All’epoca ero ammaliata dalla capacità di Prokosch di raccontare per verosimiglianza. Mi sembrò una coincidenza formidabile che anche Pier Vittorio si trovasse a scrivere di lui per verosimiglianza (Prokosch morì prima della data concordata per l’incontro, ma lui andò lo stesso); e il racconto è così struggente come mai avrebbe potuto esserlo un’intervista.

(Sandro Lombardi era mio ospite a Milano e propose una cenetta con Pier Vittorio, che non ne voleva sapere. Disse che era influenzato, che non aveva voglia di mangiare, né di uscire di casa. Alla fine acconsentì a patto di dettare il menù: minestrina. Fu una serata strana, quando rientrai dal giornale li trovai mestamente seduti al tavolo di cucina, circolava poca allegria e Pier era visibilmente sofferente. Se ne andò via presto).