Brooklyn, forse più ancora di Manhattan, incarna New York per la generazione dei millennials, il che fa di Alex Ross Perry il Woody Allen di Cobble Hill. Dopo essere stato presentato in concorso al Sundance Film Festival, il nuovo lavoro del regista di Listen Up Philip!, Golden Exits, è a Berlino, nella sezione Forum. Coadiuvato da un gruppo di lavoro ormai inscindibile dall’estetica dei suoi film (e di cui fanno parte il direttore della fotografia Sean Price Williams, il montatore Robert Greene e il compositore Keegan DeWitt) Perry, a Park City, aveva spiegato che il punto di partenza di Golden Exits era stato il desiderio di contrastare l’abituale, spesso bellicosa, frontalità dei suoi personaggi con un film corale, in cui nessuno aggredisce verbalmente un coprotagonista e tutti hanno qualcosa da nascondere.

I segreti di questa farsa molto rohmeriana (il ciclo delle quattro stagioni; e poi L’ami de mon amie e Le rendez-vous de Paris – mentre i Woody Allen di riferimento sono stati Another Woman e September), giocata tra le vie alberate e le facciate in brownstone di un quartiere elegantemente colonizzato dalla gentrificazione, non sono segreti importanti, gravi, ma di quella natura innocua, «normale», che corrompe l’aria e i rapporti a poco a poco, e impercettibilmente. Il film è costruito su due triangoli simmetrici, rispettivamente composti da una coppia di sorelle e dal marito di una delle due. Alyssa (Chloe Sevigny) e Gwendolyn (Mary Louise Parker) sono le figlie del direttore di una prestigiosa rivista letteraria, e hanno assunto il marito di Alyssa, Nick (l’ex Beastie Boys Adam Horowitz), perché metta a posto l’archivio di papà. Sam (Lily Rabe) è l’assistente di Gwendolyn e la sorella di Jess (Analeigh Tipton), che ha una piccola casa discografica con suo marito Buddy (Jason Schwartzman, alter ego di Ross Perry già in Listen Up Philip!).

Nel passato di entrambi gli uomini si annusa un’aria di piccole infedeltà, di scappatelle (reali o mentali) improprie, che colora di sospetto ogni ritardo, ogni risposta generica e, soprattutto, l’ingresso in scena della nuova assistente di Nick, Naomi (Emily Browning) una studentessa australiana in città per l’estate, che si appoggia anche a Buddy perché è il figlio della migliore amica di sua madre. Presenza translucida, quasi indifferente, dietro ai lineamenti e ai colori di un quadro preraffaellita, Naomi catalizza le asperità che uniscono e separano gli altri personaggi. A sua volta non completamente passiva, o vittima, ma una via di mezzo tra la cifra e un’ingenua opportunista.

Così Nick diventa più patetico, Alyssa più triste, Gwendolyn più cattiva, Jess più preoccupata, Sam più frustata nelle sue ambizioni e Buddy più sfuggente. Umani troppo umani, nei loro difetti e nelle loro zone d’ombra, quasi sempre logorroici, i personaggi di Golden Exits, e degli altri lavori di Ross Perry, condividono il milieu intellettuale/sociale di tanti film diAllen, anche se Perry non traduce mai le loro nevrosi in vera e propria slapstick. Ma nel suo cinema è allo stesso tempo meno divertente, meno crudele e, per certi versi, meno universale di quello alleniano, quell’empatia, e quello sguardo «filosofico» un po’ all’europea, insieme al microcosmo di attori/collaboratori che partecipano al suo progetto, low budget e low key (un altro dei suoi registi di riferimento è Robert Altman), lo rendono più originale, intrepido e meno prevedibile di altri contemporanei poeti di Brooklyn, come per esempio Noah Baumbach.