Quanto è grande il Primavera Sound? Dati ufficiali alla mano, solo quest’anno avrebbe raggiunto la bellezza di centonovantamila paia d’orecchie. Si conferma così una tendenza al rialzo che, dai settantaseimila registrati nel 2009 in poi, ha continuato a salire praticamente in verticale, malgrado la crisi iberica. A questi vanno aggiunti gli oltre settantamila spettatori che gli scorsi 6,7 e 8 giugno hanno affollato l’Optimus di Porto, rassegna satellite della più nota tre giorni catalana, con una versione ridotta dello stesso cartellone. Ma non è il solo numero dei partecipanti a fare grande un festival. Basta allargare un tantino il quadro all’intera città, nei giorni immediatamente precedenti e successivi all’evento, e si vedranno piazze, monumenti, teatri e spazi pubblici invasi da musica dal vivo. Difficile poi ipotizzare un uso più intensivo per quella struttura labirintica che è il Párc del Forum di Barcellona, con ben nove palcoscenici dislocati al proprio interno. Gli spostamenti in massa da una ribalta all’altra – talvolta per quasi quindici minuti di cammino – ricordano pellegrinaggi da kolossal biblico. Esodi degni dell’Antico Testamento, con le elìte musicali al posto del popolo eletto… E precisamente qui sta il dilemma: fermo restando che trattasi di un raduno internazionale per giovani che resistono alle proposte mainstream e allo strapotere dei talent show, quale evento di musica indipendente e/o alternativa può definirsi tale dinanzi a cotante platee? Per giunta quest’anno si trovano in cartellone tutti e due i nomi che meglio rappresentano il paradosso di un sottobosco «a vocazione maggioritaria»: Arcade Fire e The National, entrambi nati e cresciuti in seno a un’etichetta indipendente e ora provvisti di un seguito che riempie stadi e arene in giro per il mondo. Complice anche il loro ultimogenito, Reflektor, lo show offerto dai canadesi è colorato e danzereccio, divertente e generoso, un succedersi di luci e lustrini a cassa dritta che nulla avrebbe da invidiare allo spettacolo di un Bowie in piena sbornia da anni Ottanta.

Fuori i secondi

I secondi, invece, vantano un allestimento meno appariscente: arrivati agli sgoccioli di un interminabile tour per la promozione di Trouble Will Find Me, suonano più stanchi ma non per questo meno celebrativi. Chiedetelo a Matt Berninger, il cantante che per due ore non ha fatto che andare ad abbracciare i fan e brindare con loro, incurante della salute di un microfono che abdicherà già a trenta minuti dalla fine, lasciando il lavoro sporco al resto del gruppo e qualche prestigioso ospite. Tra questi si è visto anche Justin Vernon, meglio noto come Bon Iver, altra voce autorevole dell’«alternativa di successo», ma che a Barcellona ha pensato bene di portare il suo progetto meno conosciuto, i Volcano Choir. Perché una cosa che al Primavera sanno fare molto bene, oltre a diventare grandi, è ritornare piccoli e, alla bisogna, ritagliarsi spazi raccolti all’interno di un contesto che tutto è fuorché intimo: la novità si chiama Heineken hidden stage, praticamente un liveclub esclusivo ricavato dai meandri del Forum, cui si accede soltanto dopo essersi procurati l’apposito lasciapassare. La certezza invece sta nel teatro dell’Auditori, appena fuori dalla struttura, negli anni sede di piccoli show per grandi nomi e viceversa.

Divise tra questi due palchi, personalità del pop d’avanguardia quali Colin Stetson e Julia Holter si sono esibiti di fronte a pubblici insperati, e sempre qui artisti attempati (questa volta è stato il turno di Julian Cope e di Peter Hook, ex luogotenente di New Order e Joy Division) hanno trovato il luogo d’elezione per rispolverare la propria storia. Il che ci porta dritti alla seconda questione… Quanto è vecchio il Primavera Sound? Uno degli organizzatori, Alfonso Lanza (di passaggio nella nostra penisola lo scorso maggio per promuovere la nuova edizione) ha stimato un’età media degli spettatori intorno ai trentatré/trentacinque anni di età. Che significa sì giovani, ma giovani adulti, già con qualche stagione discografica alle spalle, un po’ di memoria storica dalla propria parte, più vicini a un riascolto critico che all’eccitazione della scoperta. Sarà anche per questo che il pubblico a Barcellona è attento e rigoroso, quasi sempre composto ed esente da pruriti adolescenziali, con più di qualche testa canuta tra le sue fila. Ma non è la sola età dei partecipanti a fare vecchio un festival. Pochi si sono presi la briga di esaminare i dati anagrafici degli ospiti: tra questi Michele Orvieti, musicista fondatore del gruppo italiano dei Mariposa qui in veste di promotore per l’ambasciata italiana di A Buzz Supreme, che in un resoconto personale della sua esperienza da spettatore attesta verso i 72,4 gli anni dei musicisti visti all’opera. Una media approssimata senz’altro all’eccesso, dal momento che tra i trecentosessanta live dell’offerta ognuno è libero di costruirsi la propria scaletta personale senza necessariamente passare per quel che resta della Sun Ra Arkestra], dalla canzone d’autore di Caetano Veloso piuttosto che dal blues sciamanico di Dr. John (rispetto assoluto per discografie passate e presenti, ma dal vivo le candeline spente si sentono tutte quante…). Resta il fatto che ad oggi, nelle sue varie incarnazioni, il rock sembra soprattutto un paese per vecchi. E se non proprio degli ultrasettantenni come i Buzzcocks, i Television o i Loop, chiamati appositamente a rinverdire i fasti di un tempo, c’è un’alta probabilità che sulle ribalte più in vista negli orari «caldi» soggiorni un complessino di signorotti di mezz’età, attorno ai cinquanta e rotti. Sempre Lanza ha dichiarato che i primi e più importanti contratti da chiudere sono quelli con i gruppi freschi di reunion, confermando che la principale attrazione del programma sta appunto nelle vecchie glorie. Moltissimi, insomma, sono accorsi qui per vedere all’opera musicisti che disertavano le scene da una decade circa, a rivivere la storia che fu giusto il tempo di un bis: con gli spettacoli di Slowdive, Slint, Godspeed You! Black Emperor e l’attesa rimpatriata dei Neutral Milk Hotel he ancora ci risuonano nelle orecchie, è difficile dar loro torto. Centinaia di migliaia di nostalgici non possono sbagliare, insomma, e se la musica pop di oggi i grandi numeri li fa solo togliendo polvere dagli archivi, la colpa non è certo del Primavera. Quando si tratta di riflettere (su)i tic e le tendenze della scena contemporanea, la kermesse spagnola è anzi la cartina di tornasole più attendibile dell’intera Europa continentale. Anche quest’anno l’obiettivo dichiarato di «offrire uno sguardo esaustivo sul presente, ricostruendo una possibile storia della musica» può dirsi raggiunto. Con il 2015 sarà il quindicesimo compleanno e l’edizione della verità: il festival iberico dovrà decidere se concedersi una (pur meritata) celebrazione del proprio passato o se rischiare, mettendo in gioco la credibilità guadagnata fino qui per ipotizzare per il pop un futuro.