Che cos’è un libro-caleidoscopio? È un libro – secondo una teoria fondata in questo momento – che ogni volta che lo si apre compone il suo disegno in un modo diverso. Tale teoria istantanea nasce avendo tra le mani «Col nuovo sole ti disturberò» Scritti, lettere, detti memorabili che, sopra il titolo, reca i nomi di Carlo Emilio Gadda e di Leone Piccioni (Succedeoggi Libri, a cura di Silvia Zoppi Garampi, prefazione di Emanuele Trevi, pp. 264, € 22,00). La tripartizione del sottotitolo designa le tre aree cromatico-tonali del caleidoscopio: quasi le sole lettere di Gadda dell’epistolario, non ritrovate la massima parte delle corrispondenti di Piccioni; le pagine di Piccioni su Gadda; una sezione memore del leopardiano Filippo Ottonieri e dei suoi «detti memorabili», che ci dà conto di come Piccioni fosse un praticante dell’aneddoto significativo, capace di rimbalzi interpretativi.
La prima lettera di Piccioni è del 1950 e il rapporto non sarà interrotto fino alla fine; ma l’epistolario ha una coda postuma, firmata dall’avvocato amico e curatore testamentario di Gadda, che chiede l’intercessione di Piccioni perché la salma del Gran Lombardo venga tumulata – secondo espresso desiderio del defunto – al Cimitero degli Inglesi di Testaccio, a Roma. Il desiderio fu esaudito molti anni dopo la morte di Gadda, 1973, quando, sindaco Rutelli, le spoglie di quel «signore della prosa», secondo le parole per la lapide dettate da Mario Luzi, furono lì traslate dalla sistemazione a Prima Porta provvisoria ma durata ventisette anni, nel 2000, «dopo lunghe contese con Milano e scogli burocratici», come scrive Silvia Zoppi Garampi (dalla cui amorevole dedizione, riversata in un commento dotto e misurato, si traggono le notizie qui solo messe in evidenza): una vicenda, quella della lunga provvisorietà, delle contese e degli scogli burocratici per una salma, che non avrebbe lasciato inerte gli umori e la penna di Gadda.
Ma il caleidoscopio non consente solo di intrecciare vari momenti: accadrebbe lo stesso per qualunque epistolario. Il fatto vero è che, intersecando le lettere con gli articoli di Piccioni, si vedono in contemporanea il momento privato e quello pubblico del sodalizio: il costituirsi di ciò che sarà memoria, in presa diretta. La pagina pubblica più antica è un’intervista radiofonica andata in onda il 4 luglio del 1950: Gadda è a quell’altezza un autore di culto, ma già perfettamente incompiuto, se alla domanda «a che cosa sta lavorando?» risponde tipicissimo, quasi alla maniera del venturo (1952) Primo libro delle favole: «Come il cane da pastore, che azzanna ora l’una ora l’altra delle sue pecore non appena le sbandano dal gregge, così io devo mandare avanti le pecore del gregge d’inchiostro».
Da questo momento, Piccioni non perderà occasione per parlare di ognuna di quelle pecore, man mano che vedranno la luce: intanto fa il ritratto del gregge in un bel saggio del 1953 su L’arte di Carlo Emilio Gadda; da lì procede poi a puntate per dare conto del conferimento del premio Viareggio (’53) o del premio degli Editori (’57), ulteriori messe a fuoco dello stato della ricezione di Gadda; e per recensire poi il Giornale di guerra e di prigionia, il Pasticciaccio, I viaggi la morte, La cognizione del dolore (un ampio saggio unito alla notizia dell’attribuzione del premio Formentor), e via continuando, senza smettere attenzione sui libri postumi: pagine partecipi e svolte da un’angolazione tutt’altra rispetto a quella dei nipotini dell’Ingegnere, attenta com’è alla verità umana di Gadda, nella quale consiste e vive, per Piccioni, la forma del suo testo.
Anche per questo, vale la pena di soffermarsi su due scritti dedicati al libello solforoso e controverso che fu (ed è) Eros e Priapo. Il primo parte dalla foto di gruppo delle recenti uscite di tre venerandi maestri: non la sopravvivenza degli scrittori degli anni trenta, scrive Piccioni, ma una loro sempre nuova presenza: il Doge di Palazzeschi, Des Mois di Landolfi e, appunto, Eros e Priapo. Nel quale l’urgenza della vita è per Piccioni subito evidente: «Nella interpretazione dei fatti della vita, dei fatti della storia, nel giudizio degli uomini e dei sentimenti, in quel che a Gadda è toccato, via via in una esistenza difficile, e da lui non certo facilitata a se stesso dal carattere che si ritrova; in tutte queste operazioni della esperienza, Gadda avrebbe voluto, vorrebbe (e lo dichiara) che fosse il Logos, con la “l” maiuscola, e non l’Eros a guidare le cose del mondo»: sarebbe a dire col filo della coerenza, della ragione, delle regole. Solo che anche Gadda, nell’accadere di certe cose, accende la scrittura della propria indignazione, e così «è il primo a essere preso da Eros, da furia, da passione, piuttosto che da Logos, del quale si scorda, in uno con la misura pacata, la dimensione obiettiva»: sta qui l’origine del libello feroce e impietoso dedicato a «il fascismo in Italia, gli anni del “balcone”, Mussolini e i segretari federali (con molta, molta parte di colpa data alle donne fasciste)», secondo l’accentuazione di una misoginia proprio non infrequente in Gadda. Per il quale, sintetizza Piccioni, «non solo il Logos fu accantonato in quel tempo [gli anni del «bel regime»], e beffato, ma l’Eros, già deprecato, fu addirittura sostituito, come motore di ogni cosa, da Priapo» e cioè da una visione fallocratica, bruta ed estetizzante al tempo stesso. Così Piccioni ben vede che Eros e Priapo è un’altra forma, più manifestamente esibita e più virulenta, di «cognizione del dolore». Come dire – si può dedurre e aggiungere: ciò che nella Cognizione era implosione e forza centripeta, in Eros e Priapo è esplosione e forza centrifuga (con un centro instabile e un corpo dilaniato: non solo il corpo del Duce ma il corpo di chi ne scrive).
Dopo questa recensione del 1967, Piccioni introdurrà, a inizio anni novanta, una ristampa di Eros e Priapo. L’occasione è riepilogo di un rapporto pluridecennale, non interrotto neppure dalla morte di Gadda, che in Piccioni resta presenza viva, a partire da un paio di aneddoti premessi quale dimostrazione palese dell’irascibilità di Gadda che neanche un’altrettanta palese cerimoniosità riusciva a occultare: «Ma è di Eros e Priapo che dobbiamo parlare e non siamo per niente fuori tema, perché Eros e Priapo si pone in una condizione assolutamente diversa da tutti gli altri libri di Gadda: vi è pochissima varietà tonale, e c’è praticamente un solo accento che risalta dalla prima all’ultima riga, quello della polemica anche devastante, anche furiosa, anche incontrollata, con rare preoccupazioni, da parte dello scrittore, di rientrare nella norma».
La critica letteraria è una pratica che sta al momento: Piccioni, critico cordiale, sta alla versione di Eros e Priapo così come congedata, tra una serie di compromessi, Gadda vivente; ma affaccia il dubbio sulle sforbiciate intercorse ricordando alcune pagine del libro così come uscite su «Officina» sotto il titolo Il libro delle Furie nel 1955, dodici anni prima della prima edizione: lì aveva colto una «violenza stilistica anche maggiore». Si può credere che il termine «violenza» non cadesse per caso, incarnato da ciò che quello stile riferiva (come sarà poi chiaro, in anni recenti, dall’edizione critica di Eros e Priapo).
Calcoli il lettore che le pagine su Eros e Priapo, dal punto di vista quantitativo, sono una percentuale ridottissima di Col nuovo sole, e ciò ne dice l’importanza, benché, o proprio perché, come i libri saggistici migliori è un libro in qualche misura involontario, sedimentato e costruito (quasi senza «vederlo») nel corso del tempo, passo dopo passo. Ha dunque ragione Trevi nella prefazione a non esitare a porlo tra quelli della cerchia stretta (Roscioni, Cattaneo, Contini, Arbasino) che hanno «fatto Gadda», ci hanno insegnato a riconoscerlo, cogliendone la portata se non allo stato nascente, di sicuro in un momento di non scontato riconoscimento, prima dei giorni di un’anche un po’ modaiola adesione.