Fu un anno di capolavori assoluti, da Le rêve del 24 gennaio ai due grandiosi nudi dell’8 e 9 marzo (Femme nue, feuilles et buste e Femme nue couchée) fino a Femme couchée à la mèche blonde del 20 dicembre; ma fu anche un anno di profonda crisi personale e artistica. Aveva cinquant’anni ed era già considerato il più grande, ma sentiva il bisogno della consacrazione: il 16 giugno apriva alla galleria Georges Petit, al numero 8 di rue de Sèze, nel IX arrondissement, la sua prima retrospettiva, che veniva accompagnata dal catalogo ragionato di tutte le sue opere curato da Christian Zervos, il fondatore e direttore della rivista d’arte contemporanea più importante del momento, i Cahiers d’Art. Un numero speciale della rivista con scritti, fra gli altri, dello stesso Zervos, Apollinaire, Strawinsky, Gueguen, Gomez de la Serna, Cocteau e Sweeney, usciva in coincidenza con la mostra. Il suo nome era Pablo Picasso, sinonimo di arte contemporanea. Pochi mesi prima un suo quadro, La coiffure del 1905, era stato venduto per la cifra record di 56.000 franchi.
A quell’anno determinante di una vita durata 91 anni, per cui alla fine sarebbe diventato meno della metà sulla linea della sua attività artistica, il Musée National Picasso e la Tate Gallery hanno deciso di dedicare un’intera mostra: Picasso 1932: Love, Fame, Tragedy, fino al 9 settembre (catalogo Tate Publishing in paperback, pp. 272 con 290 illustrazioni, sterline 25). A quel tempo Picasso non sapeva che avrebbe continuato a lavorare per altri quarant’anni, ma oggi noi lo sappiamo e ci chiediamo se sia legittimo concentrarsi su un solo anno di una carriera così intensa. I curatori della mostra, Achim Borchardt-Hume e Nancy Ireson, coadiuvati da Laura Bruni e Juliette Rizzi, non hanno avuto dubbi: quell’anno contiene il prima e il dopo, include tutto Picasso, è Picasso. Non segna una fine e un nuovo inizio, una sistemazione e un rilancio, un’assunzione del passato e una proiezione verso il futuro. Sarebbe un anno di transizione, come tutti nella vita e nella storia. Lì, nel 1932 di Picasso, si verifica invece un fenomeno stupefacente: la vita e la storia si fermano. Il tempo è azzerato: tutto è compresente.
Con la retrospettiva alla galleria Petit Picasso sfidava prima di tutto la storia, per entrarci di prepotenza, al di sopra di chiunque altro: su un piedistallo antistorico, perché le classifiche guardano all’assoluto, ignorando contesti e cronologie. Lì, nella galleria Petit, aveva avuto una retrospettiva due anni prima il suo grande collega e rivale Henri Matisse, più vecchio di dodici anni (alla loro gentle rivalry ha dedicato nel 2001 un documentario Ginny Martin: da vedere), togliendogli il privilegio di poter essere il primo vivente ad avere una retrospettiva dove erano stati esposti Delacroix e Courbet. Due giorni prima, il 14 giugno, apriva al Musée de l’Orangerie una grande retrospettiva di Manet, che Picasso aveva sempre amato e spesso imitato. Entrare in questa costellazione della pittura contemporanea non sarebbe stato possibile senza uscire dalla storia e collocarsi al di sopra: Picasso decise di esporre le sue opere senza date, selezionandole dall’intera sua carriera, indipendentemente da appartenenze di tempi, luoghi, stili e generi. La galleria doveva contenere tutto Picasso, l’ieri e l’oggi, il blu e il rosa, il cubista e il surrealista, lo spagnolo e il francese, in un caleidoscopio picassiano che mostrasse la sintesi impossibile di una personalità artistica plurale. Sintesi del non sintetizzabile e biografia del non temporalizzato, la mostra nasceva come un paradosso, in cui Picasso portava la contraddizione che l’ha sempre caratterizzato e che lo ha reso così unico: l’uno rivolto al tutto, la vita vissuta fino all’estremo al punto da toccarne l’essenza, l’arte traslata da esperienza ad autosufficienza.
Tutto è doppio, infatti, nel Picasso del 1932. A partire dalla situazione che in quell’anno esplose in tutta la sua inconciliabile insostenibilità: la bigamia. Sposato da tredici anni con Olga Khokhlova, da cui aveva avuto il primogenito Paulo nel 1921, da circa cinque Picasso aveva una relazione con Marie-Thèrese Walter, da cui avrebbe avuto la sua seconda figlia, Maya, tre anni dopo. Marie-Thèrese divenne la sua musa soprattutto ai fini della retrospettiva di giugno, dove per la prima volta la sua presenza nella vita di Picasso veniva condivisa col pubblico (sul conseguente atélier di Boisgeloup ci fu una mostra a Rouen, di cui ha riferito «Alias-D» il 4/6/17). Se si vorrà leggere la genesi dell’opera d’arte ricorrendo al biografismo e allo psicologismo, l’apertura della mostra della Tate con un passo indietro, alla vigilia del cruciale 1932, il giorno di Natale del 1931, sarà fulminante: quel giorno Picasso dipingeva nella sua casa al 23 di rue La Boétie a Parigi due tele di diversissime dimensioni. Una piccola, La femme au stylet, sogno surrealista di una donna che uccide la rivale in amore, e una grande, Femme au fauteuil rouge, col volto sostituito da un cuore, in un rinnovato stile coloristico.
Il doppio è però fatto pittorico al di là delle sue origini personali e culturali: è nello sdoppiamento strutturale dell’immagine dell’amata, che rimette in circolazione le stereotipe categorie di maschile e femminile, fino a riabilitare l’autore dalla tradizionale accusa di machismo, come nell’allusione surrealisticamente fallica del volto di Marie-Thèrese diviso in due nel già citato sogno del 24 gennaio; è nella presenza di un elemento speculare che moltiplica o integra l’immagine del corpo, come in Femme nue, feuilles et buste dell’8 marzo, dove una metafisica erma sul piedistallo veglia sulla donna nuda che dorme, oppure in Le miroir di quattro giorni dopo, dove lo specchio riflette quella parte della donna che nel primo piano non solo non si vede, ma proprio non c’è; infine, è nell’impossibilità di distinguere se la figura rappresentata sia scissa interiormente o in armonia col mondo esterno, come in Femme nue dans un fauteuil rouge del 27 luglio, dove il doppio cromatico (dei pigmenti) e cubistico (dei punti di vista) impone di spostare continuamente lo sguardo, oppure, anche, se si tratti di un solo corpo incredibilmente e voluttuosamente snodato ovvero di due corpi polipescamente aggrovigliati, come in La sièste del 18 agosto, dove le masse muscolari s’individualizzano a tal punto da separarsi. Gli ultimi due esempi sono successivi alla retrospettiva di giugno, come se Picasso avesse incorporato fino in fondo il dato che la mostra aveva valorizzato, per farne strumento di un godimento rotondo, che cattura il morbido abbandono dei volumi nella nuova dimensione pittorica, arraffante, sfuggente e insieme onnipresente, del corpo femminile. Doppio tematico che non può che essere formale, prodotto della tecnica, dovuto ai nuovi, sorprendenti accostamenti di cremisi, pistacchio e malva, col colore impastato maniacalmente e pennellate più pastose e luminose.
Doppio senza dialettica, naturalmente, perché la sintesi è già data e sussunta: a priori e da scomporre. Perciò anche i grandi maestri del passato, da Tiziano a Velázquez, non sono più riferimenti esterni, ma presenze interne a una pittura che non può fare a meno, anche quando racconta l’oggi, di guardare alla totalità della storia e non rinuncia, anche quando parla di un amore presente, a parlare dell’Amore con la A maiuscola. Non tanto année érotique, come nel sottotitolo parigino, ma una chiave d’accesso a tutto Picasso. Altri capolavori, da Guernica a Las Meninas, sono di qua da venire, ma chissà che il 1932 non li spieghi e contenga, con quel lavoro sull’altare di Isenheim e quella scena di danza delle ninfe al suono del flauto che sono i due poli estremi, manieristicamente, dell’affondo tragico e della contemplazione estetica in quell’anno inesausto di affermazione e ricerca.
Comunque mescoli, surrealismo e cubismo, colorismo e disegno, plasticità e superficie, antico e moderno, erotismo privato e dramma storico, Picasso stravolge e avvolge, è qui e oltre, guarda e agisce: bimane, con una mano che dipinge e l’altra che esplora. «Vorrei dipingere come un cieco che dipinge un culo per come il culo si sente», sembra che abbia dichiarato proprio nel ’32. Energia è la forza che è dentro il lavoro, un’intensità della concentrazione che è intrinseca al fare ossessivo e implica immersione totale: in quel 1932 che vide l’apice della grande depressione e il decisivo progresso dei totalitarismi, Picasso fu energia pura, con una produzione, tra pittura, scultura e disegno, eccezionale pure per i suoi altissimi standard. Con oltre 100 opere divise mese per mese, la mostra ora alla Tate di quel ’32 vuole fare un diario, ma ne costruisce anche il monumento: lavoro quotidiano e lavoro assoluto, in inscindibile endiadi.
«Se è vero che il grande enigma, la causa permanente di conflitto dell’uomo col mondo risiede nell’impossibilità di spiegare tutto con la ragione – scriveva André Breton l’anno dopo sulla rivista «Minotaure» in un articolo dedicato proprio a Picasso – come si potrà chiedere all’artista, all’intellettuale, di rendere conto dei modi che sceglie per soddisfare l’imperioso bisogno umano di formare contro le cose esteriori altre cose esteriori, nelle quali tutta la resistenza dell’essere interiore sia al tempo stesso eliminata e inclusa?». Questa tensione continua – che è mutua esclusione e necessaria compresenza – tra il corpo che rilutta e la forma che gl’impone un altro corpo, tra la realtà e la sua rappresentazione, è il mistero della creazione artistica: ed è il 1932 di Picasso. Sarà solo uno scherzo del destino che la seconda versione della retrospettiva, spostata a Zurigo tre mesi dopo con diverso allestimento, ricevesse una recensione di Jung, che diagnosticava a Picasso una tendenza alla schizofrenia, perché le sue pitture manifestavano la loro alienazione dai sentimenti?