Cinquanta anni sono già storia e il cerimoniale per commemorare la strage che ha cambiato l’Italia se non altro ha imposto alle istituzioni – per una volta a tutte le istituzioni – una presa di coscienza che pubblicamente Milano aspettava da un pezzo.

Da cinquanta anni. Non sarà mai abbastanza, ma ieri è stato davvero un 12 dicembre diverso dal solito. E così è stata la prima volta di un presidente della Repubblica a Milano per la strage di piazza Fontana – «l’identità della Repubblica è segnata dai morti e dai feriti della Banca Nazionale dell’Agricoltura» ha detto Mattarella – e la prima volta in cui a Palazzo Marino il consiglio comunale ha ricordato gli anarchici Pino Pinelli e Pietro Valpreda. Milano in questo cinquantesimo riconsegna al resto del paese anche le scuse a nome della città del sindaco Beppe Sala alla famiglia Pinelli, per l’ingiustizia subita – «una persecuzione» – e per il fatto che il ferroviere anarchico ucciso non è mai stato considerato ufficialmente come una vittima della strage di piazza Fontana. Un discorso schietto, la cifra migliore di questa giornata.

Anche Milano, dopo troppi anni di commemorazioni stanche che si sono trascinate per dovere, ieri ha sentito la necessità di esibire il suo volto migliore. Tre cortei e qualche inutile polemica – uno ufficiale, un altro degli anarchici e un altro ancora della sinistra antifascista e antirazzista – e luminarie natalizie spente in segno di lutto cittadino e soprattutto migliaia di persone che questa volta hanno voluto esserci, o tornare, anche solo per rispetto della propria storia personale.

Il presidente della Repubblica prima di entrare in aula a Palazzo Marino ha incontrato i parenti delle vittime di piazza Fontana e le due vedove, Licia, moglie di Pino Pinelli con le due figlie Silvia e Claudia, e Gemma, moglie del commissario Calabresi, insieme al figlio Mario. È la parola «depistaggi» che dà il tono al discorso ufficiale del presidente, parole che sono state accolte con sollievo dai parenti delle vittime. Per Sergio Mattarella, «l’attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata doppiamente colpevole». Di più, quell’attentato fu «un cinico disegno nutrito di collegamenti internazionali e reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana, a vent’anni dall’entrata in vigore della sua Costituzione, disegno che venne sconfitto».

Mattarella ha anche ricordato quanto la narrazione di quell’evento abbia condizionato, e continui a condizionare, la storia d’Italia: «Disinvolte manipolazioni strumentali del passato, persistenti riscritture di avvenimenti, tentazioni revisioniste alimentano interpretazioni oscure entro le quali si pretende di attingere a versioni ad uso settario, nel tentativo di convalidare, a posteriori, scelte di schieramento, opinioni di ieri…».

Secondo il presidente dell’Associazione delle vittime di piazza Fontana, Carlo Arnoldi – «fino ad oggi ci siamo sentiti un po’ soli» – questo discorso ha ricucito una frattura e ha interrotto la sensazione di una solitudine non solo istituzionale. «Insieme ai familiari sentiamo il dolore profondo per una ferita non rimarginabile recata alla nostra convivenza», aveva detto poco prima il presidente rivolgendosi proprio a loro. E anche questa è una prima volta.

Ci sarà tempo per soppesare le parole di Mattarella e dare seguito a una «discussione» su quei fatti che certo non finisce qui. Quello che di certo resterà impresso nel ricordo è il silenzio profondo che è calato su piazza Fontana alle 16,37 in punto, cinquanta anni dopo la Bomba, un silenzio interminabile durato solo un minuto che ha scavato nel profondo delle vite di ognuno, di quei 17 che non ci sono più – nomi e cognomi letti ad alta voce – e di quelli che hanno ancora la forza di ricordare e di non mollare. Tanti o pochi che siano.