Non è colpa del destino e nemmeno dei crescenti impatti climatici se in Italia sono così rilevanti i danni a seguito di alluvioni, così tanti i morti quando piove o durante le ondate di calore. Perché di questi processi oramai sappiamo tutto, conosciamo dove avvengono con maggiore frequenza e i territori che sono a maggior rischio perché più fragili da un punto di vista idrogeologico o che diventano pericolosi per il modo dissennato con cui si è costruito nel secolo scorso. Il problema è che non ci stiamo preparando per uno scenario che nei prossimi anni vedrà crescere i pericoli, in un Pianeta che si sta surriscaldando.

L’Italia è oggi l’unico grande Paese europeo senza un piano di adattamento al clima, ossia di uno strumento che permetta di individuare le aree più a rischio e di indirizzare lì le risorse prioritarie, aiutando i Comuni a elaborare progetti per ripensare le aree dove scorrono i fiumi, i sistemi di gestione delle acque in piazze che oggi si allagano, a rendere meno caldi e più belli gli spazi pubblici con alberature e materiali che assorbono meno il calore. Questa assenza è particolarmente grave perché ora che abbiamo le risorse europee di Next Generation Ue non le investiremo dove è più urgente ma in progetti «cantierabili» pensati qualche anno fa ma scelti senza un criterio di priorità. Se non cambiamo le politiche continueremo in questa triste contabilità di danni che si ripete senza soluzione di continuità, quando abbiamo la possibilità di ridurne la portata puntando su allerta dei cittadini e sulla messa in sicurezza dei territori.

Ogni anno il nostro Paese, secondo i dati della Protezione Civile, spende 1,55 miliardi per la gestione delle emergenze, in un rapporto di 5 a 1 rispetto a quanto dedicato alla prevenzione. Invece dovremmo puntare a ridurre la prima voce di spesa e in parallelo muovere investimenti che intervengono sui problemi, ripensando anche l’approccio con cui interveniamo nei territori in modo da gestire una risorse al contempo pericolosa e preziosa, a seconda dei periodi dell’anno, come l’acqua. Possiamo farlo grazie all’enorme patrimonio di dati di cui disponiamo attraverso Cmcc e Ispra, ma anche ai monitoraggi di Legambiente presenti nel rapporto Cittàclima presentato ieri. Un risultato viene fuori con chiarezza dagli scenari sul rischio climatico per i prossimi anni elaborati per il nostro Paese e dalle analisi delle aree che stanno subendo maggiori impatti: in Italia ci saranno alcuni territori in cui sarà più pericoloso vivere e lavorare. La notizia positiva è che sappiamo quali sono, perché dal 2010 ad oggi alluvioni, ondate di calore e trombe d’aria si sono ripetute con maggiore intensità a Roma, Bari, Milano, Napoli, Genova e Palermo. E assieme a queste aree urbane vanno considerati territori come la costa romagnola e delle Marche, della Sicilia orientale e del Ponente ligure, alcuni ambiti della costa sud e nord sarda e della Toscana.

Le ragioni sono diverse, climatiche e idrogeologiche, ma ci troviamo di fronte a fenomeni senza precedenti. Come sa bene chi vive Siracusa, che ad agosto ha percepito un caldo record in Europa con 48,8 °C, e solo due mesi dopo ha visto una quantità di pioggia senza precedenti e la devastazione per il passaggio del «medicane» Apollo. Dopo mesi passati a parlare di clima, tra G20 e Cop26 di Glasgow, passando per la creazione del nuovo Ministero della transizione ecologica, è ora che si passi dalle promesse ai fatti per cambiare davvero pagina.

* vicepresidente Legambiente