«Sono contenta di aver fatto questo viaggio, ma non posso dire di esserne uscita senza lividi». Così Paola Piacenza, regista e giornalista, commenta l’esperienza vissuta durante la realizzazione de Il fronte interno. Un film che mostra il complesso e frastagliato mondo della povertà in Italia, un’indagine condotta insieme all’inviato di guerra Domenico Quirico che si snoda da Aosta a Palermo, tra alcune delle tante situazioni in cui l’indigenza si manifesta: dallo sportello per la distribuzione gratuita dei farmaci al banco alimentare, dagli alloggi temporanei ai parcheggi dei camper. Condizioni di sofferenza di cui le nostre metropoli sono ormai piene, ma che generalmente scorrono silenziosamente sotto lo sguardo indifferente dei più. Il fronte interno, presentato all’Idfa di Amsterdam e poi al Torino Film Festival, affronta la situazione a viso aperto e, tentando di smuovere la coltre di noncuranza, solleva più domande che risposte: come è cambiata la concezione del povero nel corso del tempo? Da cosa sono mossi coloro che volontariamente si dedicano all’assistenza? Quali fenomeni storici ed economici producono attualmente l’indigenza? In questione c’è una società basata sullo sfruttamento e l’esclusione, sul successo e l’accumulo, perché la povertà è una piaga – forse la peggiore, insieme alla guerra evocata nel titolo – che si sta accettando sempre più come inevitabile ma che riguarda milioni di persone solamente in Italia. Abbiamo intervistato Paola Piacenza per condividere con lei alcune di queste domande.

La regista Paola Piacenza

Il legame tra la guerra e la povertà emerge sia dal titolo del film sia dalla professionalità di Domenico Quirico. Come ha inteso questo rapporto?

Alcuni anni fa ho realizzato il film Ombre dal fondo con Domenico, incentrato sulla sua storia e sul suo giornalismo sempre molto coinvolto nei confronti della sofferenza delle persone, con l’obiettivo di far partecipare i lettori a quanto lui esperisce. Abbiamo pensato che il modo in cui ha lavorato ai fronti di guerra potesse essere utile per definire la povertà in Italia, intendendola come il «fronte di casa nostra» più urgente. Si è parlato di guerra rispetto all’opera di contrasto al coronavirus ma credo che sarebbe più opportuno, da parte della politica, scegliere di mettersi l’elmetto per affrontare quest’altra emergenza, che nega la prospettiva di un futuro diverso ormai a quattro milioni di persone nel nostro Paese.

Le riprese hanno abbracciato un arco di tempo piuttosto lungo, la pandemia è arrivata in corso d’opera. Come ha influito sulla macchina dell’assistenza?

Sì, le abbiamo iniziate nel 2017 raccogliendo cento ore di girato. Ogni situazione che abbiamo ripreso poteva costituire un film a sé stante, ma ci piaceva questa idea di un «viaggio in Italia» rovesciato rispetto a quanto si intende solitamente. Un punto che mi è subito sembrato chiaro è che la politica ha totalmente abdicato al suo dovere di preoccuparsi di questa rilevante fascia della popolazione perché può permetterselo, esistendo una macchina dell’assistenza e del volontariato molto efficiente, spesso ispirata da ideali religiosi. Questi atti di oblazione così estremi mi hanno commossa e toccata profondamente, ma mi indigna il fatto che ciò permetta alla politica di non fare il suo lavoro. Le organizzazioni assistenziali sono al momento indispensabili e anche durante la pandemia hanno rimodulato il loro intervento in maniera impeccabile ed estremamente rapida, da professionisti.

Nel film si ripete più volte che la povertà viene spesso nascosta per la vergogna di chi si trova in quella condizione, le persone che ha incontrato sono state reticenti a farsi riprendere?

È una questione che ci siamo sempre posti, ripetendoci di voler filmare solo chi fosse stato disposto a farlo spontaneamente, ma devo dire che dopo aver lavorato per anni a contatto con esseri umani in stato di sofferenza, mi sono trovata in una grande difficoltà emotiva. Di fronte alla vergogna di chi non voleva mostrare al mondo la propria condizione di povertà, provavo vergogna anch’io nel chiedergli di partecipare a ciò che stavo facendo. È stato complicato e doloroso anche per me, poi le questioni si sono sciolte sul terreno, nelle relazioni individuali.

Come è entrata in contatto con la classe di scuola media che ha ripreso a Palermo?

Ci tenevo molto a dedicare una parte del film alla povertà educativa che è alla radice di tanti altri mali. Girare nelle scuole è delicato, ma in quell’istituto di Palermo ho trovato una grande preside che ha visto un’opportunità nel dialogo che potevamo instaurare con i ragazzi. Mi ha colpito vedere gli alunni stranieri molto motivati in previsione di un cambiamento nella loro vita, credevano nello studio come strumento di miglioramento, mentre i ragazzi locali facevano molta difficoltà ad immaginare di modificare la propria condizione rispetto a quella dei genitori, non avevano quasi mai grandi aspirazioni.

Nella parte finale del film, nel dialogo tra Quirico e il sociologo Marco Revelli, si cercano delle risposte facendo un’analisi storica della trasformazione del lavoro. Mi ha colpito la definizione di «working poor», ovvero la condizione per la quale non basta avere un impiego per fuoriuscire dalla povertà, al contrario di quanto vorrebbe la retorica sugli «sfaticati».

Assolutamente, inoltre è impensabile che in una società come la nostra tutti gli individui siano abili al 100%. Bisogna prendersi cura delle parti più fragili, di chi non ce la fa a stare al passo perché è sempre più difficile. Non ci vuole molto per cadere, la frontiera è sempre più labile e bisogna avere degli strumenti di intervento piuttosto che ricorrere al biasimo e alla demagogia. Credo ad esempio che sia veramente difficile spassarsela con 500€ al mese, l’importo massimo del reddito di cittadinanza.