«Ascolta tutto. Ascolta il mondo intorno a te. Sappi che ogni suono ti racconta il modo in cui gli esseri umani riescono ad interagire con il mondo. Prova ad incontrare le persone in quel punto di contatto dove si ascolta e si crea musica, dove si celebra e si ricorda il passato».
Non ci potrebbe essere consiglio migliore per qualsiasi studente che decida di intraprendere il tortuoso e affascinante percorso dell’etnomusicologia. E la fonte è autorevole, in quanto a parlare così è Philip V. Bohlman, un’autorità in materia. La circostanza per incontrarlo si è concretizzata grazie alla sua presenza a Roma in occasione del Premio Balzan 2022, di cui è stato insignito «per il contributo all’etnomusicologia e per i suoi studi su musica e nazionalismo europeo, e sulle musiche urbane ebraiche improntate alla ricerca storica». A tal proposito, lo scorso 25 novembre, dopo la cerimonia svoltasi all’Accademia dei Lincei, i quattro premiati – Martha C. Nussbaum per la filosofia morale, Robert Langer per i biomateriali, la nanomedicina e l’ingegneria dei tessuti, Dorthe Dahl-Jensen e Johannes (Hans) Oerlemans per la glaciazione e la dinamica delle calotte polari, oltre allo stesso Bohlman – , sono stati ricevuti al Quirinale, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È la lunga carriera dello studioso proveniente dagli Stati Uniti a spiegare i motivi dell’onorificenza che gli è stata riconosciuta.

Philip V. Bohlman

 

Oltre ad una prestigiosa carriera accademica, Philip V. Bohlman vanta percorsi di altrettanto valore come saggista, musicista e, ancora oggi, ricercatore. Una strada che ha preso il via dalla minuscola comunità rurale di Boscobel, nel sud ovest del Wisconsin: «Sono cresciuto in questo paesino di campagna, dove tutti facevano musica in un modo o nell’altro. Personalmente, ero considerato come il giovane musicista di Boscobel: suonavo il corno, il piano e cantavo. Essere duttile mi permetteva di fare un po’ di tutto. Ad esempio, la domenica suonavo in due chiese diverse, la prima al mattino per la funzione delle sette e la seconda, da un’altra parte, attorno alle undici. La messa del mattino era in una chiesa tedesca, quella successiva in una inglese, con annesso rito tradizionale. Ammetto che rimasi affascinato dal fatto che queste persone venerassero lo stesso dio, ma con linguaggi e musiche diverse. Per me è stato molto formativo, in quanto mi ha aiutato a capire le differenze e i caratteri distintivi delle lingue e delle culture che si riunivano. Quindi questa è una delle ragioni per le quali ho sviluppato l’interesse ad andare dalle persone e ad ascoltarle. In tal senso, è esemplificativo uno dei miei primi progetti, che prese forma attorno ad agricoltori e allevatori che portavano con sé, sorprendentemente, un ampio bagaglio musicale. In particolare uno di questi, che lavorava duramente la terra tutti i giorni, conosceva un repertorio di ben centodieci incisioni… e quando tornava a casa, si sedeva, suonava l’organo e cantava. Era incredibile. Mi chiedevo perché qualcuno che passava il tempo chino sui campi, conoscesse così tante canzoni e cosa queste significassero per lui. Tra l’altro, non parlavano della sua vita, ma di persone in posti lontani: quindi, come potevano dare valore alla sua esistenza?».
Il giovane Bohlman inizialmente aveva rivolto le attenzioni allo studio della genetica.
Ma gli eventi presero una piega diversa: «Avevo deciso di occuparmi della scienza, ma senza quasi rendermene conto, la musica iniziò ad occupare sempre più spazio. Mentre mi laureavo in pianoforte, cresceva in me la convinzione di lavorare con agricoltori e operai. Bene, l’etnomusicologia mi ha permesso di farlo. D’altronde venivo da un luogo di immigrati ed è stato naturale decidere di incontrare quelle persone con le loro credenze, tragedie, storie e melodie che portavano con sé».
La svolta nel percorso di crescita è avvenuta grazie all’incontro con il docente Bruno Nettl, un etnomusicologo e antropologo ceco ma naturalizzato statunitense, che Bohlman iniziò a seguire a un corso di musica folk. Le parole dello studioso lo colpirono nel profondo, esortandolo ad approfondire le ricerche sul campo, andando oltre la sua formazione classica che si richiamava a nomi come Beethoven e Mozart: «Nettl, è stato una grande fonte di ispirazione. Oltre a studiare e ascoltare la musica della gente comune, mi ha spinto a cercarla in posti dove non ero mai stato prima: dopo il dottorato in Israele, sono stato in Medio Oriente e in India, dove sto lavorando ancora. E dopo tanti anni, posso dirti che l’idea di capire e comprendere altre persone, altri mondi e le differenze che ci rendono umani, è fondamentale».
Bohlman, dopo aver conseguito il dottorato di ricerca in etnomusicologia presso l’Università dell’Illinois nel 1984 con una tesi sulla cultura musicale degli immigrati europei in Israele, ha definitivamente indirizzato il proprio interesse sulla connessione tra musica e religione, con particolare attenzione al mondo ebraico. Non solo, ha continuato a ricercare le relazioni di quest’ultimo con le pratiche musicali sacre comuni a diverse religioni in giro per il globo, volgendo lo sguardo fino verso l’Asia meridionale. Testimonianza di tutto questo sono le innumerevoli pubblicazioni, oltre ad una sempre presente attività accademica che non ha comunque mai pregiudicato l’impegno come musicista. Centrale da questo punto di vista, è la New Budapest Orpheum Society, un’orchestra di otto elementi nata nella divisione delle discipline umanistiche dell’Università di Chicago.
L’ensemble dal 2002 porta in giro uno spettacolo imperniato su una miscela di cabaret ebraico e canzoni politiche dello scorso secolo, pescando dalla tradizione ebraica, yiddish e tedesca. Il combo, che vede Bohlman nelle vesti di voce narrante e direttore artistico, ha avuto riconoscimenti internazionali importanti, tra cui la nominationa ai 58th Annual Grammy Awards del 2016, nella categoria «Best Classical Compendium» per il disco As Dreams Fall Apart-The Golden Age of Jewish Stage and Film Music (1925-1955), pubblicato dalla Cedille Records: «È stata una sorpresa totale, perché non rientriamo propriamente in nessuna categoria, infatti ci hanno inseriti in una che non credo ci comprenda veramente. Ma ovviamente ci ha fatto piacere. Sai, è un tipo di riconoscimento per quello che facciamo, ovvero unire diversi repertori ed essere riconosciuti. In questa direzione, il nostro prossimo progetto è un cabaret musicale sull’esilio, che speriamo di registrare nel 2023».
Il combo rappresenta in pieno la totalità del lavoro e delle passioni dell’etnomusicologo: «Ci esibiamo in sette lingue: ebraico, yiddish, tedesco, francese, ceco, russo e inglese. Prendiamo spunto da tradizioni diverse, facendone una sintesi nella quale non rappresentiamo un solo tempo, ma l’intero Ventesimo secolo. Alcune delle prime canzoni, vengono da melodie che erano state censurate. Suoni di strada che prima di poter circolare tra il pubblico, visto che erano tutte a sfondo politico, dovevano venire approvate dalle autorità della città. È una risorsa incredibile poter ascoltare queste canzoni di centoventicinque anni fa e dargli nuova vita. L’idea a cui stiamo lavorando è il cabaret dei campi di concentramento, al tempo del nazismo e fascismo. Prendiamo musica che spesso è stata repressa, che non era concesso suonare in pubblico e creiamo appositi arrangiamenti, per renderla fruibile».

 

ORDINE CRONOLOGICO
Davvero vasta è l’opera di Philip V. Bohlman, che sintetizziamo qui con alcuni dei passaggi più importanti. Per quanto riguarda la produzione discografica della New Budapest Orpheum Society, oltre l’imprescindibile lavoro nominato ai Grammy Awards, da non perdere sono Dancing on the Edge of a Volcano del 2002 e Jewish Cabaret in Exile del 2009, ambedue stampati dalla Cedille Records e che ascoltati in ordine cronologico, fanno comprendere al meglio l’inestimabile lavoro svolto dalla formazione. Per ciò che concerne la produzione letteraria, irrinunciabili sono i seguenti volumi: Revival and Reconciliation: Sacred Music in the Making of European Modernity, Scarecrow Press, 2013; Jazz Worlds/ World Jazz (con Goffredo Plastino), University of Chicago Press, 2016; Song Loves the Masses: Herder on Music and Nationalism (con J. G. Herder), University of California Press, 2017.