Nato nel 1951 a Berlkeley, California, Phil Tippett con la sua lunga barba bianca ha qualcosa di stregonesco e un grande mago, un illusionista, lo è davvero, avendo concepito gli effetti speciali di alcuni tra i film di culto più leggendari della storia recente.

Dopo The Crater of Lake Monster di William Stromberg, Tippet ha lavorato con George Lucas come realizzatore degli effetti visivi e speciali e creatore di macchine e creature in Guerre Stellari, L’impero Colpisce Ancora e Il Ritorno dello Jedi. È stato supervisore per Steven Spielberg ai dinosauri di Jurassic Park per i quali ha vinto un premio Oscar, e ha partecipato in maniera fondamentale a Indiana Jones e il Tempio Maledetto, all’incompreso ma da riscoprire Howard the Duck di Willard Huyck, a Piraña di Joe Dante, a Willow di Ron Howard, a Robocop e Starship Troopers di Paul Verhoeven…
Sarebbe impossibile immaginare questi lungometraggi senza l’opera, il genio e l’estro di Phil Tippet, un artista che ha determinato il sorgere di una nuova estetica dell’immaginario fantastico, risultando fondamentale per il cinema come lo fu Ray Harryhausen, persino oltre, considerando la dimensione stellare di alcune sue invenzioni.

Abbiamo intervistato Phil Tippett, in occasione della ventunesima edizione di View Conference, sempre propedeutico in maniera ammirevole e più che affascinante simposio dedicato ai media, all’animazione e alle tecnologie digitali svoltosi a Torino dal 18 al 23 ottobre.

C’è stato un momento, o un evento, che ha scatenato la sua passione, facendole decidere che avrebbe inventato e animato creature e mostri?
No ho mai preso una decisione, tutto è successo con naturalezza durante il corso del tempo. Mi ricordo che nel 1955, quando avevo cinque anni, ho visto trasmettere in televisione il King Kong di Cooper e Shoedsack. Sono rimasto sconvolto e meravigliato È stata una specie di magia. Da quel momento cominciò il mio interesse per la paleontologia che perdura tuttora. Inoltre nel 1958 uscì al cinema Il Settimo Viaggio di Simbad, con le creature animate da Ray Harryhausen, così chiesi ai mie genitori di portarmi a vederlo. Non sapevo nulla, all’epoca, delle tecniche utilizzate per quegli effetti speciali, sapevo solo che quelle creature non erano come Godzilla, quindi con un attore dentro ad un costume. Successivamente trovai in un negozio la rivista intitolata Famous Monsters of Filmland di Forrest J. Ackerman, che si occupava dei film più strani e ovviamente anche di mostri. Fu grazie agli articoli che lessi su quella rivista che cominciai a capire le tecniche di animazione in «stop-motion».

Le creature e i mostri di Ray Harryhausen sono indimenticabili, ancora bellissime.
Le invenzioni di Harryhausen sono state certamente una grande fonte di ispirazione per me, mentre stavo crescendo. È vero, alcuni dei suoi lavori saranno sempre attuali, ad esempio gli scheletri e l’idra degli Argonauti, sono stupefacenti e ancora spettacolari. La bellezza imperitura della «stop-motion!

Ci dice qualcosa a proposito delle sue esperienze nella regia dei film, ad esempio in «Starship Troopers 2»?
Ammetto di non essere mai stato troppo interessato nella regia, quindi quella volta è stata più che altro una scommessa del mio amico John Davison, produttore tra l’altro di Hollywood Boulevard, Grand Theft Auto, Piraña, Twilight Zone The Movie e poi di Robocop e Starship Troopers. John pensava che se fossimo andati alla Sony e avessimo proposto l’idea di un seguito del film di Paul Verhoeven avremmo potuto fare qualche soldo. Avevo già lavorato in moltissimi lungometraggi, conosco le dinamiche del cinema, le fatiche e le pene dei registi! Ma è stato educativo e formativo dirigere di persona Starship Troopers 2, anche se non avessi quel gran bisogno di essere formato o educato! È stato spassoso, ci siamo divertiti John, io e il cast, è valsa la pena realizzare quel film ma non lo farei di nuovo!

Quale delle sue creazioni è quella che ricorda con maggior affetto e perché?
Non saprei davvero dire, non sono solito guardarmi indietro, riconsiderare il passato, a meno che qualcuno non mi faccia qualche domanda, perché sono molto più interessato a ciò che concerne il futuro. Se proprio devo pensarci, ecco direi le invenzioni più iconiche di Guerre Stellari, come il «camminatore imperiale» o il «tauntaun». Ed anche Robocop o i gli insetti alieni di Starship Troopers.

Lei ha lavorato con alcuni grandi registi, come Steven Spielberg, George Lucas, Joe Dante, Ron Howard o Paul Verhoeven.
Si tratta di persone molto creative con i quali è stato affascinante condividere una visione. Ammiro molto il modo di lavorare di Paul Verhoeven, egli è il migliore quando si tratta di gestire le relazioni tra se stesso e gli altri elementi del cast. Era solito dire che se fosse stato il direttore di un’orchestra sinfonica, durante l’esecuzione di un concerto per violino, io sarei stato il primo violino. Paul ha sempre fatto di tutto per mettermi a disposizione quello di cui necessitavo per fare il mio lavoro nel migliore modo possibile. E non per fini narcisistici ed egoistici, ma per aumentare la prestazione di tutto il cast e quindi il valore assoluto del film, inteso come opera corale.

E ci può dire qualcosa che concerne il suo futuro?
A me sembra abbastanza strano, ma pare che le tecniche della «stop-motion» stiano tornando di voga e che il pubblico si stia stancando delle animazioni in «computer-graphic». Per esempio abbiamo realizzato dei segmenti della serie Star Wars di The Mandalorian, in «stop-motion». Ciò che mi sta impegnando da più anni è il progetto intitolato Mad Dog, un film animato e fantastico pieno di mostri. Quando sarà finita questa pandemia potremo finalmente terminarlo e lo vedrete al cinema, nei festival, infine anche in streaming.

C’è una qualche creatura o un mostro particolarmente amato che non ha realizzato e invece vorrebbe?
No, non ho rimpianti in questo senso; non ho più realizzato molto di persona da qualche tempo e penso di avere davvero finito. Ho fatto moltissime cose, ho avuto la fortuna di avere dei grandissimi mentori, e quindi per me è ormai tempo di fungere da guida per le giovani generazioni.

Lei videogioca?
No!

Perché? E cosa ne pensa dei videogame?
Per me sono una perdita di tempo. Quando cominciarono a uscire i primi videogiochi pensai che forse se ne poteva fare qualcuno nel mio studio, ma per svilupparli è richiesta un’attitudine mentale completamente diversa dal cinema. Agli albori dei videogiochi trascorsi ore, fino all’aurora, con una cosa che si chiamava «Gadget». Solo dopo tre settimane ho realizzato quanto tempo avessi sprecato e che c’è di molto meglio da fare, dopo di che non me ne sono mai più interessato.