Parete di suono, Wall of Sound. Secondo lui sarebbe stato «un approccio wagneriano al rock’n’roll, piccole sinfonie per ragazzi». Avrebbe dovuto essere questa l’eredità artistica di Phil Spector, una gran quantità di chitarre, diversi pianoforti, un insieme mai visto né sentito di percussioni per realizzare una sonorità impressionante. Una parete di suono, appunto. E impressionante lo fu, segnando profondamente le registrazioni e i successi musicali degli anni ’60 e ’70. Perché Phil è stato un personaggio esagerato, eccessivo, al punto che una dozzina d’anni fa è finito in galera: diciannove anni di condanna per omicidio di secondo grado. E in California, in prigione è morto di Covid sabato scorso a 81 anni.

PER RACCONTARE un personaggio del genere bisogna partire dall’inizio. Di origine ebraica, nonno Spektor modifica il cognome sbarcando a New York, e lì, nel Bronx, nasce Harvey Philip, detto Phil il giorno di santo Stefano del 1939, figlio di due cugini primi. Infanzia problematica, farcita di episodi di bullismo che lo vedono vittima predestinata. Non ha ancora compiuto dieci anni quando babbo Benjamin si suicida. Mamma Bertha, Phil e sorella si rinfacciano l’accaduto l’un l’altro. Qualche tempo dopo i tre si trasferiscono a Los Angeles. È giovanissimo quando comincia la sua passione per la musica, suona chitarra e pianoforte, compone canzoni, e con due amici, Marshall Lieb e Annette Kleinbard forma i Teddy Bears, ispirandosi a una canzone di Elvis (Let Me Be Your Teddy Bear). Scrive e incidono To Know Him Is to Love Him, ispirato alla scritta che compare sulla tomba di suo padre. Primo grande successo. Ma i passi successivi sono deprimenti, poi Annette ha un incidente d’auto che le devasta il viso, cambia nome in Carol Connors e successivamente scrive brani per colonne sonore.

Molti altri episodi hanno contrassegnato i suoi comportamenti folli. Una volta venne aggredito brutalmente in un bagno e da allora ha sempre girato con addosso una pistola, che spesso spianava anche nelle occasioni meno opportuna, se mai ce ne fossero. Nel 1974 un terrificante incidente d’auto lo fa dare per morto. Qualcuno invece si accorge che c’è ancora un briciolo di vita e in ospedale lo salvano. Divorzi contrassegnati da minacce e racconti spaventosi. La morte di un figlio di nove anni per leucemia, infine la condanna per omicidio. Tutto raccontato, non senza controversie e polemiche nel film tv di David Mamet, Phil Spector, in cui il protagonista è Al Pacino affiancato da Helen Mirren.

SE IL TERMINE GENIO e sregolatezza avesse ancora un senso sarebbe perfettamente applicabile a Spector, che dopo lo scioglimento dei Teddy Bears avrebbe voluto mollare la musica, ma non lo ha fatto, diventando milionario a 21 anni, collaborando e spesso litigando con tutti i più grandi della scena musicale. Scrivendo, producendo, suonando, cantando, facendo capricci e sfoderando trovate magistrali che gli hanno permesso di lavorare con Rolling Stones, Beatles, in particolare John Lennon e George Harrison, Ronettes, Ramones, Leonard Cohen, Tina Turner, Cher, Celine Dion, Yoko Ono, arrivando a piazzare quantità industriali di canzoni nelle classifiche dei dieci brani più venduti, accumulando una fortuna che in parte ha dovuto poi ridare a ex mogli e artisti che hanno collaborato con lui dopo sentenze processuali che lo hanno visto perdente.

Nessuna però grave come quella legata alla morte di Lana Clarkson per colpo di arma da fuoco avvenuta a casa di Phil nel 2003. Processato una prima volta nel 2007 con un esito nullo, Phil è stato processato di nuovo nel 2009 e condannato a 19 anni di prigione. Una vita folle all’insegna del delirio contrappuntata da episodi insostenibili, dai comportamenti spesso crudeli di un uomo che ne ha viste e fatte di ogni, e che ora, dopo averci lasciato canzoni indimenticabili, non potrà più nuocere né a se stesso né agli altri.