Basta forse solo una settimana dalla scomparsa di Pharoah Sanders – tanto celebrato, a caldo, sui social da critici autorevoli, quanto appena ricordato dai media audiovisivi tradizionali – a comprendere la statura artistica di un jazzman protagonista, pur tra alti e bassi, degli ultimi sessant’anni di storia della musica. Sanders, ancora in piena attività fino a poche settimane prima, muore quando ormai da circa un ventennio la sua poetica e il suo carisma rientrano, finalmente, tra le espressioni maggiori (e migliori) dell’intera vicenda del sound e del mondo afroamericani.

DUE FASI
Non è sempre così; infatti si possono dividere la fortuna e la carriera di un originalissimo saxman, polistrumentista, compositore e band leader in due fasi: durante la seconda metà degli anni Sessanta e, dopo un sofferto periodo, dalla fine del XX secolo ai nostri giorni. Nel primo caso, trovarsi al fianco di John Coltrane – dopo Eric Dolphy, Archie Shepp e pochi altri compagni di sassofono – significa all’epoca garanzia di qualità, impegno, fierezza nera, avanguardia, sperimentazione. Ma, subito dopo la morte di Trane, il Faraone, un po’ come la vedova Alice Coltrane, intraprende una strada impervia, però tutt’altro che rara in quegli anni intrisi, dal rock al folk, dal soul al free, di psichedelia, misticismo, spiritualità, che non è gradita ai puristi del jazz (professori, giornalisti, qualche collega), attratti invece verso gli altri percorsi degli ex coltraniani: l’africanismo – per quanto ristretto al solo album Sahara – del pianista McCoy Tyner o il ritorno all’hard bop di Elvin Jones con la batteria alla testa di propri energetici gruppi, convincono i critici assai più delle «stravaganze» orientaliste di un Sanders in fondo incompreso o sottovalutato, fino a quando, durante i Nineties, gli esponenti britannici dell’acid jazz lo riscoprono quale iniziatore del genere, che egli stesso perpetuerà, motu proprio, con una verve accresciuta di nuove partnership (Franklin Kiermyer, Jah Wobble, Tisziji Muñoz, Joey DeFrancesco, Chicago Underground Duo, fra gli altri). In una conversazione personale con Geoff Dyer, all’epoca il romanziere di Natura morta con custodia di sax (racconti ispirati dalle vite di celebri solisti), lo scrittore ricordava che la ripresa del jazz nell’intero Regno Unito comincia da un concerto di Pharoah a Londra per la prima volta di fronte a un pubblico di giovani entusiasti, gli stessi che di lì a poco si mettono a campionare i dischi Impulse! e Blue Note: anche un Art Blakey, da decenni il beniamino dei jazz festival tradizionali, rimane incredulo quando, alla fine di un suo recital, condotto in una discoteca alla moda, dagli organizzatori a divertirsi, sente i propri dischi mixati da un dj che non lo riconosce, mentre i ragazzi ballano sulle note della propria Blues March o delle sandersiane The Creator Has a Master Plan, Astral Traveling, Upper Egypt and Lower Egypt.
Gli inizi per Farrell Sanders non sono facili: figlio unico di umili lavoratori, che comunque lo incoraggiano negli studi scolastici, nasce il 13 ottobre 1940 a Little Rock, in Arkansas, cittadina tristemente nota: quando l’allora promettente sassofonista è al penultimo anno di liceo (1958) le scuole pubbliche vengono chiuse ai neri dal senatore reazionario Orval Faubus (al quale Charles Mingus dedicherà subito un brano sprezzante, Fables of Faubus) e occorre l’esercito federale per ristabilire l’ordine che consente a tutti, senza distinzione di fede o colore, di frequentare elementari, medie, superiori. La discriminazione però, in loco, è diffusa anche nei locali notturni e, una volta diplomato, Sanders e ne va in California, mantenendo a lungo il nickname di Little Rock per amore verso l’Arkansas, dove esattamente vent’anni prima (1978) dopo verrà nominato il più giovane governatore statunitense, quel Bill Clinton, a sua volta leader della contestazione sessanttotesca (e nel 1993 primo presidente dei Democrats di sinistra).

BAY AREA & NEW YORK
Dalla Bay Area a New York, nel giro di un solo decennio Pharoah – soprannome datogli dalla nonna e ribadito da Sun Ra, nella cui Arkestra milita per circa un biennio – è mattatore nei dodici album free di Coltrane (registrati in soli due anni), in molte altre valenti collaborazioni discografiche (Don Cherry, Ornette Coleman, Michael Mantler, Gary Bartz ecc.) e soprattutto nel trittico, a proprio nome, Tauhid; Karma; Jewels of Thought (1966-1969): non solo spiritual music, ma, risentito oggi, anticipazione straordinaria del world jazz. Seguono altri otto ellepì per la Impulse! (tra cui i fortunati Black Unity e Village of the Pharoahs), poi Sanders viene via via rimosso dai circuiti importanti, nonostante continui assiduamente a suonare, tenendo concerti e incidendo dischi, soprattutto per Arista, Theresa, Timeless, etichette con cui i rapporti non sono mai idilliaci.
Il fatto è che proprio, con Black Unity (1971), dove lancia il bassista Stanley Clarke, il faraone inizia a usare i ritmi africani, insistendo poi a diversificare ulteriormente la propria estetica, onde recuperare identità sonore popolari come il rhythm and blues (Love Will Find a Way) e la latin music (Spotlight On) o ripercorrere la storia del jazz attraverso il modale, il bebop, il postbop. Si ricomincia a parlare di Pharoah attorno al 1992 con la ristampa su cd di Ed Kelly and Friend (1979) in origine un 33 giri a nome del pianista, ma ora rinominato dall’importante label Evidence come Ed Kelly And Pharoah Sanders, con l’aggiunta di bonus track con interventi dell’allievo Robert Stewart. Due anni dopo il celebre produttore Bill Laswell gli accorda la fiducia per The Trance Of Seven Colors, interamente registrato in Marocco con il grande musicista Mahmoud Guinia di stile gnawa. Sempre nel 1994 Pharoah appare nell’antologia Red Hot + Cool (curato dall’associazione no profit Red Hot Organization Stolen Moments a favore dei malati di AIDS): nei brani This Is Madness con Umar Bin Hassan e Abiodun Oyewole e The Creator Has a Master Plan (Trip Hop Remix) ottiene un imprevisto successo, mentre l’operazione viene nominata «disco dell’Anno» dalla rivista Time.

VECCHI SAGGI
Tutto questo consente a Sanders il ritorno a una major, la Verve, che gli pubblica Message from Home (1996), seguito da Save Our Children (1998): nonostante il buon exploit, il faraone annuncia il proprio disgusto per il mondo discografico, che si riflette contro se stesso; pur sbandierando gli effettivi meriti a difesa di un’arte ormai fruita e goduta da audience trasversali, nel 1999 rilascia un’intervista lamentando, per sé, la scarsità di lavoro, di contratti, di ingaggi.
La rinascita di interesse, negli anni 2000, verso i «vecchi saggi» del free jazz offre a Sanders la chance di esibirsi in una sfilza di festival prestigiosi, tra cui, Bluesfest Byron Bay (2004), Melbourne Jazz Fest (2007), Big Chill Festival (2008) con tanto di live album al seguito: il tutto anticipato dal forte seguito in Giappone dove, nel 2003, registra, assieme alla locale band Sleep Walker, l’omonimo lavoro di techno jazz.
Negli ultimissimi anni sono due le maggiori gratificazioni ufficiali per un musicista che possiede ancora molti fan negli ambienti alternativi: da un lato (2016) ottiene la borsa di studio NEA Jazz Masters e al contempo viene premiato in un concerto tributo a Washington il 4 aprile dello stesso anno; dall’altro (2020-21), il sassofonista collabora assieme al musicista elettronico Floating Points e alla London Symphony Orchestra, al progetto Promises, che per molti studiosi diventa il più importante da due decenni: acclamato ovunque, per la chicagoana webzine Pitchfork risulta «un chiaro capolavoro di fine carriera». La prevista tournée 2022-2023 si ferma al concerto del 28 agosto, il suo cuore, invece, il successivo 23 settembre, in un ospedale di Los Angeles