«USiamo l’acqua in bottiglia non solo per bere, ma anche per cuocere la pasta, per fare il brodo, per l’ultimo risciacquo alla verdura… in alcune famiglie usano l’acqua in bottiglia anche per lavarsi i denti». Queste sono le nuove abitudine quotidiane nella famiglia di Michela Piccoli, a Lonigo, provincia di Vicenza. Ci troviamo in piena «zona rossa» dell’inquinamento da Pfas (sostanze perfluoroalchiliche), i veleni che hanno contaminato gli acquedotti del Veneto centrale.

Un male scoperto solo nel 2013, grazie ad uno studio del CNR che ha rivelato livelli «allarmanti» di questi inquinanti, definiti «emergenti», perché la loro presenza non è ancora normata. Nel maggio dello stesso anno la Regione Veneto ha confermato che la principale, anche se non unica, fonte di contaminazione si trova sotto la ditta chimica Miteni di Trissino: tonnellate di rifiuti e scarti industriali sepolti dagli anni ’70, che da allora inquinano i fiumi, la falda, e i terreni. I Pfas entrano nel corpo attraverso acqua e alimenti, e si accumulano: impiegano fino a 5 anni per essere smaltiti dall’uomo, dagli animali e dall’ambiente. Le indagini sui loro effetti non hanno ancora prodotto risultati definitivi, ma le conseguenze in chi ha alti livelli di Pfas nel sangue sono già evidenti: diabete, ipertensione gravidica, patologie cardiache e del metabolismo, probabili effetti cancerogeni.

«Nella nostra famiglia siamo in 4, ma solo mia figlia 15enne rientrava nel monitoraggio della regione: le sue analisi dicono che nel sangue ha livelli di Pfas 11 volte più alti di quelli consentiti», racconta ancora Michela, che fa parte di uno tanti gruppi No Pfas nati nella regione. Quegli stessi gruppi che lo scorso 6 dicembre hanno manifestato davanti alla sede del consiglio regionale a Venezia. E che non sono stati nemmeno ricevuti. «Abbiamo iniziato chiedendo che l’acqua nelle scuole fosse pulita» ricorda Michela; man mano che la gravità della situazione si è andata definendo, però, le richieste si sono necessariamente fatte più importanti: «Bonifica subito: non possiamo aspettare i tempi della Miteni, che in 4 anni ha ripulito il 10% dell’area inquinata. Andando avanti così ci vorranno almeno 30 anni per finire». La falda acquifera, «grande come il lago di Garda», dice Michela, ormai è persa. Con danni ambientali incalcolabili, per tutto il Veneto.

La sola zona rossa è un’area vasta tra i 150 e i 200 km quadrati, che comprende almeno 79 comuni tra le province di Verona, Vicenza e Padova; ci abitano circa 350mila abitanti. «Ma i contaminati da Pfas sono molti di più», secondo Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Stop PFAS di Greenpeace: «Recentemente, cittadini di comuni non inseriti nella zona considerata a rischio, hanno scoperto di avere alti livelli di Pfas grazie ad analisi fatte di propria iniziativa. È verosimile quindi che il problema sia più esteso di quanto si possa immaginare». È il caso per esempio di San Bonifacio, 21 mila abitanti, dove le analisi del sangue, eseguite su iniziativa dai comitati cittadini, hanno fatto registrare dati al limite del tollerabile anche in bambini tra i 4 e i 7 anni. La Regione Veneto, anche sotto il peso delle pressioni dei comitati locali e delle associazioni ambientaliste, ha abbassato il livello massimo degli inquinanti negli acquedotti, e ora l’uso di filtri permette che, in alcuni casi, i Pfas siano talmente bassi da non essere rilevabili. «Ma i filtri si sporcano molto rapidamente, e sono molto costosi» continua Michela, «questa non può essere la soluzione definitiva».

Siamo infatti ancora molto lontani dalla risoluzione del problema, come conferma anche Ungherese: «Tutte le misure prese a livello sanitario, dalle analisi alla plasmaferesi (la «pulizia» del sangue ndr), rischiano di essere completamente inefficaci, se non si interviene alla radice del problema. Perché a livello ambientale è stato fatto ancora poco, o niente».

Che l’acqua che esce dai rubinetti sia stata filtrata e depurata infatti non basta, perché la contaminazione da Pfas ha già raggiunto ormai tutto quello che arriva sulla tavola: frutta, verdura, carne, uova, pesce. A metà novembre Regione Veneto e Istituto Superiore di Sanità hanno concordato che sono solo alcune specie di pesci che vivono nelle acque interne dell’area a meritare il divieto di consumo per inquinamento. Per la ministra Lorenzin, sul campione di 1.100 tra prodotti di origine animale e vegetale, provenienti da allevamenti e coltivazioni dell’area rossa, non ci sono quindi altre «criticità», con gran sospiro di sollievo per la Coldiretti Veneto, visto che l’economia di queste province si basa su allevamento e agricoltura. In molti però non si fidano, e di prodotti a km. zero non vogliono nemmeno sentir parlare. Così come continuano a non fidarsi dell’acqua di rubinetto.

La Miteni intanto afferma di aver sostituito dal 2011 i Pfas tradizionali con composti detti «a catena corta», molto meno persistenti, e di aver attivato una barriera idraulica con filtri a carboni attivi, per ripulire l’acqua delle falde. Ma, come già detto, tutto quello che attraversa i terreni avvelenati dai rifiuti ancora interrati, si contamina.

Nell’attesa di conoscere la relazione della Commissione consigliare d’inchiesta, che verrà depositata entro fine mese, i gruppi No Pfas continuano le iniziative di sensibilizzazione e di protesta. Bonifica subito, quindi, ma anche l’applicabilità della delibera 360, approvata dalla giunta regionale Veneto nel marzo scorso, che prevede la chiusura o la delocalizzazione di siti industriali inquinanti: queste sono ora le principali richieste. «Anche in considerazione del fatto che non sono state identificate tutte le fonti d’inquinamento», sottolinea Ungherese di Greenpeace, «chiediamo alla Regione Veneto di favorire la riconversione industriale: queste sostanze possono essere sostituite con alternative più sicure per l’ambiente e la salute in numerosi processi industriali», e non c’è nessun motivo di sversare un solo nanogrammo di Pfas in più.