Oscillava ieri sera intorno ai 32 dollari il prezzo del barile di greggio. Un balzo rispetto ai giorni scorsi avvenuto dopo l’accordo raggiunto domenica dai paesi membri dell’Opec+ per un taglio della produzione di 9,7 milioni di barili al giorno – il più ampio mai deciso – che ha messo fine allo scontro tra Arabia saudita e Russia e al crollo delle quotazioni del petrolio innescato dalla pandemia del coronavirus. La risalita si consoliderà? I dubbi non mancano.

Goldman Sachs e UBS avevano previsto la scorsa settimana che il Brent sarebbe rimasto basso poiché i tagli comunque risulteranno insufficienti. Più di uno specialista del settore ritiene che il prezzo del barile ai livelli che auspicano i paesi produttori è tra 50 e 55 dollari. Obiettivo irrealistico nelle condizioni attuali e dei prossimi mesi. I consumi di greggio resteranno ridotti sino a quando l’emergenza sanitaria paralizzerà gran parte del pianeta. Occorre tenere conto inoltre dell’eccedenza di produzione ora sul mercato e delle scorte accumulate dei vari paesi. Fonti dell’OPEC+ però prevedono che i tagli andranno nella direzione di una più ampia diminuzione della produzione di petrolio, a 20 milioni di barili al giorno, ovvero il 20% dell’offerta globale a decorrere dal primo maggio. Il percorso però resta accidentato. Il gruppo rispetto dell’Opec aveva questo dato nella sua bozza di dichiarazione, poi l’ha rimosso dalla versione finale.

Ci sono volute settimane di trattative e quattro giorni di videoconferenze per arrivare all’intesa, che Donald Trump ha salutato con entusiasmo non mancando di ringraziare russi e sauditi. «Il grande accordo petrolifero con OPEC + è concluso. Ciò consentirà di risparmiare centinaia di migliaia di posti di lavoro nel settore energetico negli Stati Uniti», ha twittato il presidente americano. Quanto l’intesa influirà positivamente sull’industria americana dello scisto, che è più vulnerabile ai prezzi bassi a causa dei suoi costi più elevati, al momento nessuno può dirlo. Intanto canta vittoria il Messico che ridurrà la sua produzione solo di 100 mila barili al giorno, molto meno di quanto chiesto all’inizio e rivaluterà la sua posizione dopo due mesi dall’entrata in vigore dell’intesa. Gli Stati Uniti, il Brasile e il Canada contribuiranno con una diminuzione complessiva di 3,7 milioni di barili. I tagli globali totali includeranno anche contributi di paesi non membri e tagli volontari più ripidi da parte di alcuni paesi dell’OPEC+.

Le prospettive sono negative per tutti i produttori, incluse le monarchie sunnite del Golfo. La Abu Dhabi Commercial Bank stima che il settore petrolifero saudita si contrarrà di circa il 6,1% nel 2020. Riyadh, che pure vanta enormi riserve di valuta, si prepara ed emettere obbligazioni ed ha già aumentato il tetto del debito al 50% del Pil rispetto al precedente 30% di marzo. Nella famiglia reale sanno che l’accordo di domenica e il rialzo del prezzo del barile fino a 40 dollari non eviteranno nel 2020 una perdita per le casse statali immediata di 40 miliardi di dollari. Nel bilancio 2020 annunciato dall’Arabia saudita, si prevedono entrate petrolifere per 136 miliardi di dollari (su prezzo del barile stimato a 55). Ora le aspettative sono più modeste e varie parti insistono sul governo per ridurre più drasticamente le spese, oltre il taglio di quasi il 5%  annunciato il mese scorso.

Tagli di spese, minori entrate nelle casse del regno e il parziale insuccesso della decisione di mettere sul mercato del gigante saudita del petrolio Aramco, significano tra le altre cose il ridimensionamento degli ambiziosi progetti del principe ereditario Mohammad bin Salman, di fatto reggente. Il coronavirus potrebbe aver sabotato il piano “Vision 2030”, per lo sviluppo e la modernizzazione del regno, messo a punto tra le fanfare dal rampollo reale.