Ci sono una mamma, Marion, e la sua bambina Nelly. La mamma è triste, ha appena perso la sua di madre, la bimba lo è ancora di più, amava tanto la nonna e non si dà pace di non averla salutata per bene l’ultima volta. Insieme al papà devono svuotare la casa dell’anziana signora dove la mamma della piccola è cresciuta, e dove ritrova le memorie della sua infanzia: i quaderni di scuola, i libri, i disegni, le paure di quando dormiva nel lettino in cui ora dorme la figlia, e forse quelle di oggi che è cresciuta. Comincia con un viaggio nel tempo, quello dei ricordi e dei cambiamenti, Petite maman il nuovo film di Céline Sciamma, in concorso alla Berlinale, che col tempo gioca sperimentandone incanti e possibilità come in una magia o in una fiaba – lei dice di essersi lasciata guidare da Miyazachi – in cui anche le situazioni più surreali diventano possibili, appaiono ancorate alla realtà. Sarà forse perché muovendosi sui bordi di quei momenti che troppo spesso vanno perduti raccontano le nostre emozioni, quanto appartiene all’intimità più profonda con l’immaginazione e lo stupore infantile.

LA REGISTA e autrice della sceneggiatura, come spiega (nelle note del pressbook) ha iniziato a pensarlo mentre scriveva Ritratto di una ragazza in fiamme, e lo ha ripreso in mano quando in Francia è finito il primo lockdown col desiderio ancora più forte di una storia di bambini tra i soggetti più dimenticati (e colpiti) da questa pandemia.
E però non è un film sull’infanzia, pur essendo girato con delicata precisione «a altezza di bambino», anzi di bambine, le due magnifiche protagoniste, Joséphine Sanz e Gabrielle Sanz, perché in quelli che sono le loro fantasie, spaventi, desideri, tristezze interroga dal loro punto di vista l’età adulta, le relazioni familiari a cominciare dai passaggi di quella tra madre e figlia, il mistero dei «grandi» (e di ciascuno) che possono essere i genitori, i loro silenzi.
Nelly rimane sola col padre, Marion sparisce all’improvviso. Dove può trovare una risposta al vuoto di un’assenza che è «per sempre» – quella della nonna – e sospesa nell’indeterminatezza – quella della mamma nonostante le rassicurazioni paterne? Nel bosco conosce una bimba della sua età, si chiama Marion anche lei, si somigliano tantissimo, la sua casa le sembra molto familiare, la sua mamma le ricorda qualcuno di vicino. È un’altra fantasia o sta accadendo davvero?

NELL’ALTALENA temporale – senza riferimenti precisi a un’epoca, potremmo essere oggi, negli anni Ottanta o prima – non ci sono trucchi: «Sono tua figlia» dice Nelly a Marion e l’altra risponde solo: vieni dal futuro? È semplice, basta crederci, è il super potere dei ragazzini con cui inventano mondi, personaggi, vite, diventano uomini e donne, amanti, moglie e marito, poliziotti, possono confidarsi timori e segreti – che non sempre nascondere qualcosa ma anche non essere ascoltati. Essere attrici, scrivere esistenze sempre diverse. Ogni cosa è possibile qui: ma non è questa la materia anche del cinema? Sicuramente quello di Sciamma che sa muoversi accordando al respiro dei sentimenti la luce – qui un magnifico autunno nella fotografia di Claire Mathon – attento ai corpi che filma con delicatezza, ai gesti che con sé portano una narrazione. La sua scrittura è precisa senza mai diventare una gabbia, al contrario le immagini vi danzano liberamente, sono slanci di energia, ci portano altrove spiazzando le attese dello sguardo.

Petite maman è a suo modo un romanzo di formazione, la crescita della bambina che passa attraverso il lutto – e il «rimpicciolirsi della mamma», il bosco come quello delle fiabe, archetipo di trasformazioni e scoperte, insieme alla proiezione fantastica per resistere alle sue ansie, immaginando la mamma non come altro da sé lontano ma come qualcuno «alla pari» con cui condividere un trauma. E ci dice dell’importanza di questa condivisione, di una lingua comune che sia un’immagine, una confidenza, un momento di abbandono o una capanna nel bosco.

IN QUESTO suo universo la regista accoglie il flusso dell’esistenza, quasi come in un caleidoscopio nel quale ritrovare qualcosa di vicino, un frammento di noi. Il suo cinema rimane aperto perché noi come spettatori possiamo trovarvi uno spazio, e anzi ci chiede di farlo per emozionarci, commuoverci, ascoltare, riscoprire un po’ di meraviglia. Con delicatezza e con pudore.