L’Uomo Ragno. Chiamiamolo così. Traduzione letterale dell’eponimo affibbiatogli da Luciano Secchi (ossia Max Bunker) all’epoca dell’Editoriale Corno (prima apparizione italiana: aprile 1970). Per undici anni, sino al marzo del 1981, il tessiragnatele è una presenza fissa delle nostre edicole. Poi il silenzio (se si esclude la meteorica apparizione del Ragno per la Labor Comics). Nel 1987 la Star Comics, sotto la guida di Marco Lupoi, riprende a pubblicare le avventure di Peter Parker. In Italia la mitologia ragnesca è pari solo a quella di Tex e di Goldrake. Intere generazioni sono cresciute seguendo le imprese dell’arrampicamuri.

Archiviata la serie televisiva del 1977 dedicata a Spidey, interpretato da Nicholas Hammond, un fotogramma della quale campeggiava sulla copertina del pioneristico volume I film di carta di Claudio Bertieri (Vallecchi, 1979), Spider-Man giunge con questo a dir poco eccellente film di Jon Watts alla sua terza incarnazione cinematografica dopo la trilogia di Sam Raimi. Se il trittico raimiano metteva in scena una poetica della «maraviglia» e il successivo reboot firmato da Marc Webb reinventava la teenage depression di Spidey in chiave dark, il film di Jon Watts è chiaramente la trasposizione e reinvenzione del lavoro di Brian Michael Bendis e della talentuosa Sara Pichelli.

Le numerose versioni delle gesta di Peter Parker testimoniano la fertilità del mitologema originario di Stan Lee il quale, per dare il senso dell’inadeguatezza dell’adolescente in piena tempesta ormonale, dovette evidentemente ricordarsi di Kafka e della sua metamorfosi. La riuscita di questo ennesimo ritorno dell’arrampicamuri al cinema – senza contare la sorpresa di trovare il nome di Amy Pascal in cima ai titoli di testa dopo il furore del suo email-gate – è dovuta senz’altro alla lungimirante scelta di affidare la regia a Jon Watts, noto sinora quasi esclusivamente per l’eccellente Cop Car.

Se in quest’ultimo film dei ragazzini trovavano una macchina della polizia abbandonata (una versione rurale del morso del ragno radioattivo) e finivano in un mare di guai, in Homecoming i poteri diventano il segno delle difficoltà da affrontare per trovare un posto nel mondo dei «grandi».
Watts imprime al racconto un’efficace ritmica slapstick per esprimere l’inadeguatezza di Peter nel governare e comprendere le sue abilità sovraumane e le potenzialità del costume progettato da Tony Stark (ossia Iron Man). Per coloro che amano la continuity Marvel, il film di Watts si situa dopo gli avvenimenti di Captain America: Civil War (anche se i detriti alieni rimandano alla battaglia di New York del primo Avengers).

L’avvoltoio, interpretato con un tocco di ironia metatestuale da Michael Keaton che non fa nulla per non ricordare al pubblico che lui è anche Birdman, è molto lontano dalla realizzazione grafica di Ditko e più simile al Dr. Octopus. Watts mette in scena il suo «ragnetto» alla stregua dei ragazzini che rubano la volante della polizia abbandonata: un fanboy, un nerd gentile, che vorrebbe essere il super-eroe che ha sempre ammirato in Tony Stark o Steve Rogers. Ed è questa lotta nell’adeguare l’immagine di se stessi al mondo, senza comprometterla, la chiave di volta del film di Watts.

In Cop Car il passaggio della linea d’ombra non poteva che compiersi nel sangue, in Spider-Man, ambientato in un universo che ha codificato i segni della cultura pop cui appartengono i supereroi, si tratta letteralmente di trovare il proprio posto (e non è un caso che quando ciò avviene cessa quasi del tutto la lotta di Peter con le barriere architettoniche di New York, il suo habitat naturale). E se la fluidità con la quale Tobey Maguire «volava» fra le vertigini di Raimi è inarrivabile, il Ragno di Watts si muove forse con qualche scattino di troppo ma chi ricorda Nicholas Hammond di certo non protesta. Infine: titoli di coda magnifici, ma peccato che non ci sia più nessun Ramones a beneficiare delle royalties di Blitzkrieg Bop.