L’esordio di Peter Handke sulla scena letteraria fu segnato da una provocazione indirizzata all’establishment intellettuale della Repubblica federale tedesca: invitato nel 1966 a Princeton da Ingeborg Bachmann in occasione dell’incontro annuale del Gruppo 47, l’allora ventiquattrenne scrittore austriaco attaccò quella che considerava una generalizzata incapacità di stare al passo con i tempi, ovvero il conformismo linguistico e sintattico della narrativa espressa dal gruppo letterario che era protagonista di quella giornata.
Due anni più tardi, gli obiettivi polemici di Handke sarebbero stati il teatro dialettico di Bertolt Brecht e quello documentario di Peter Weiss, incapaci di agire nel tempo e nella società a cui si rivolgevano, sebbene il loro scopo fosse stimolarne il cambiamento. Al teatro dialettico e documentario, Handke contrapponeva Sprechstücke (pezzi teatrali parlati), ispirati dalla lingua della strada e dell’immediatezza, il cui fine non era conseguire effetti scenici, ma rappresentare la spontaneità. In quello stesso anno, mise in scena Kaspar il cui protagonista è una macchina retorica, un automa senz’anima che ha perso qualsiasi possibilità di autodeterminarsi ed è diventato un tipo riproducibile a piacimento.

MENTRE IN GERMANIA si faceva strada la drammaturgia della «nuova soggettività», la produzione teatrale e narrativa di Peter Handke piegò lo spazio letterario a luogo di analisi del rapporto fra individuo e potere. Ma alla cosiddetta Nuova oggettività sono comunque riconducibili quei suoi romanzi molto noti, che affrontano il rapporto fra genitori e figli: più famoso degli altri Infelicità senza desideri (del 1972), un delicato ritratto del rapporto fra un figlio e sua madre, mediato dall’esperienza biografica dello scrittore austriaco, e allo stesso tempo la descrizione della vita di una donna sino al suo suicidio, scandita da una quotidianità prosaica, nella quale non è possibile coltivare speranze per il futuro, neppure attraverso la letteratura. Quanto all’interesse di Handke per una poetica centrata sul rapporto fra individuo, società e mondo, Prima del calcio di rigore (del 1970) è forse il suo titolo più noto, anche grazie a Wim Wenders, che ne trasse l’omonimo film; gli stessi temi avrebbero poi trovato la loro espressione più matura in L’ora del vero sentire (del 1975), il cui protagonista, Gregor Keusching, arriva via via a una percezione profonda di sé e del contesto sociale nel quale vive. È una prospettiva, questa, che torna nei romanzi degli anni settanta, dove Handke recupera i moduli espressivi della tradizione.

Con Lento ritorno a casa, in particolare, lo scrittore austriaco tornava ai suoi tradizionali intenti provocatori: la legge del «mondo buono celato» che il protagonista cerca di esperire, oltre a ricordare la «mite legge» che secondo Adalbert Stifter reggeva gli equilibri della natura, rivela l’impossibilità di sfuggire alla reificazione cui è ormai condannato l’individuo, nel secondo Novecento. Sorger, il protagonista, vive dunque fra due mondi inconciliabili: realtà e fantasia, colpa e innocenza, trovando nella «ripetizione» la sola possibilità di scorgere una via d’uscita dall’impasse in cui si trova. Ripetizione (del 1986) si intitola, del resto, un romanzo emblematico del desiderio che Handke coltivava circa la possibilità di incastonare la propria prosa nella tradizione dell’epica classica, fornendo in più alla sua scrittura una valenza salvifica.

LA FIDUCIA nel «potere curativo del linguaggio», inteso anche come antidoto alla degenerazione della storia e del mondo, ha indotto Handke a raccontare nel Cinese del dolore (datato 1983) il «mondo celato» dietro a quello reale, seguendo le vicende dell’insegnante Andreas Loser, che si muove tra Salisburgo Mantova e la Sardegna come un vero e proprio «cercatore di soglie», luoghi fisici e metafisici in cui il tempo e lo spazio sono sospesi.

SUL FINIRE degli anni ottanta, Handke collaborò con Wim Wenders alla sceneggiatura del Cielo sopra Berlino mentre degli anni novanta verranno ricordati i tre provocatori reportage relativi ai viaggi effettuati nel teatro della guerra civile, che scuoteva allora la ex-Jugoslavia: le sue prese di posizione in favore della Serbia suscitarono scandalo, soprattutto nei paesi di lingua tedesca. Non contento, Handke tenne nel 2006 una commemorazione dell’ex dittatore jugoslavo Slobodan Milosevic in occasione del suo funerale. Allo stesso anno risale anche il dramma Tracce degli smarriti con il quale Handke porta in scena la parola come ultima realtà rappresentabile in un teatro che, ancora come quello del Kaspar, interroga l’esistenza umana, ponendole domande dinnanzi alle quali la lingua stessa segna il passo.

GLI SCRITTI di non fiction degli anni 2000 sembrano insistere sul viaggio e sulla ricerca identitaria e linguistica (Saggio sul luogo tranquillo e Saggio sul raccoglitore di funghi 2013), accompagnando il lettore in paesaggi europei ed orientali, poi facendolo sostare in luoghi in limine, nei quali potersi rifugiarsi per diventare, grazie al linguaggio, un «misuratore di spazi» e uno «sperimentatore di passaggi».
Handke, del resto, ha sempre avuto bisogno di luoghi intermedi, di soglie dalle quali guardare la società austriaca ed europea, fra silenzio e linguaggio. Tutta la sua produzione va letta nel contesto largo della ricerca linguistica austriaca, che dalla Lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal attraversa la scrittura della Vienna di fine Secolo e, tramite la filosofia di Wittgenstein, innerva la sperimentazione del Gruppo di Graz, del quale l’autore fu esponente di primo piano sin dal novembre 1960, quando le riunioni vennero avviate con l’intento di maturare una critica argomentata e decisa all’establishment culturale di Vienna, ancora assai conservatore. Di questa antica militanza nella causa della letteratura sembra essersi ricordato il comitato del Nobel, nell’assegnargli il premio.