È il 1969 quando esce Scene di caccia in Bassa Baviera, l’autore si chiama Peter Fleischmann, ha una trentina di anni, e con quel suo primo lungometraggio scuote la «placida» Germania del boom, mostrandone la violenza quotidiana celata dietro ai «sani» principi della vita di provincia. «I critici tedeschi mi hanno spesso rimproverato di detestare la Germania ma non è vero: io mio sento profondamente tedesco» diceva Fleischmann. E lo sguardo critico della sua opera, ma soprattutto la capacità di sape cogliere nel profondo le dinamiche sociali e le «maschere» del suo Paese, sono resi possibili sol da questo: una conoscenza dall’interno, da chi abita e vive quella determinata realtà.

Eccoci così a un film che tanto sconcertò, ritratto di una piccola città che odia chiunque non è conforme al profilo della comunità, tanto da renderlo folle e omicida, per poi cacciarlo come una preda – ma con la giustificazione necessaria.
Il film, che venne presentato al festival di Cannes (Semaine de la Critique) è anche uno dei primi segnali lanciati da quella che sarà la Neue Welle, la Nuova Onda del cinema tedesco degli anni Sessanta/Settanta, con opere che scavavano oltre la facciata del presente per mettere a nudo la cattiva coscienza della Repubblica Federale – «il fascismo quotidiano» lo definiva Fleischmann.

LUI CHE del Nuovo cinema è appunto uno dei protagonisti forse più sperimentali, a differenza degli altri registi della sua generazione come Wenders, Fassbinder e Volker Schlöndorff – col quale aveva fondato una società di produzione – rimane un po’ più ai margini della scena, forse anche perché i suoi film incontrano maggiori difficoltà col pubblico spiazzato dall’ironia irriverente del suo realismo.

LO STESSO film in questione, Scene di caccia in Bassa Baviera, ha un aspetto di messinscena «documentaria» – con gli abitanti del villaggio che interpretano se stessi, costruendo giorno la demonizzazione di uno tra loro che è tornato dopo una lunga assenza. Era stato in carcere perché omosessuale, dicono di lui, per condannarlo bastava molto meno. La «caccia» inizia dispiegando accuratamente la crudeltà, in quel luogo così tradizionale di brave persone tra cui si materializzano i fantasmi del recente passato nazista.
Fleischmman lo definiva una sorta di «heimatfilm» su un mondo rurale e fantasmagorico – lo aveva scritto insieme al drammaturgo e attore Martin Sperr, autore della pièce teatrale da cui è tratto.

Nato nel 1937, figlio di un giudice, Fleischmann da bambino studia musica. La prima «rottura» con la famiglia è quando giovanissimo decide di entrare in un circo – col quale rimane un anno. A Monaco entra al Diff – l’Istituto di cinema e televisione, e nel ’57 gira il suo primo cortometraggio, Die Eintagsfliege, a cui seguono Geschichte einer Sandrose, Brot der Wüste, Begegnung mit Fritz Lang, Der Test Alexander und das Auto ohne linken Scheinwerfer.
Nel 1967 realizza Herbst der Gammler (L’autunno del capellone), sui conflitti tra nuove e vecchie generazioni, intanto grazie a una borsa di studio si sposta in Francia e entra all’Idhec, lavorando come assistente alla regia per Jacques Rozier.

LA FRANCIA rimane un riferimento, Jean-Claude Carrière scrive con lui la sceneggiatura di Dorothea’s Rache (La dolcissima Dorotea, 1974), una parodia dei film erotici alla moda, nella storia di una ragazzina che approda all’hard core perché insoddisfatta dei filmini lesbici girati con le amiche, mentre in Das Unheil (La sfortuna, (1972) assistente alla regia è il magnifico Jean Louis Stevenin – anche lui da poco scomparso.
Col tempo i progetti di Fleischmann hanno sempre maggiori difficoltà a trovare dei finanziamenti, Es ist nicht leicht ein Gott zu sein, ambizioso film di fantascienza, girato in Tadjikistan, sfugge al suo controllo forse troppo visionario o avanti sui tempi come quel Die Hamburger Krankhei (La malattia di Amburgo), scritto insieme a Topor, (1979) in cui immagina una città nella quale è scoppiata un’epidemia sconosciuta, le persone girano indossando una maschera di plastica e le autorità iniziano la repressione. Qualche anno prima, nel 1974, aveva firmato La smagliatura – con Ugo Tognazzi nel cast – girato in Grecia sul regime dei colonnelli.
Negli anni Novanta Fleischmann si impegna nel salvataggio e nella gestione degli studi cinematografici di Babelsberg.