Un singolare contrasto tra le atmosfere brutalmente desolate, sinistre, inospitali fino al limite della sopravvivenza, e i dialoghi dei personaggi attaccati a un realismo piattamente domestico e privo di fascino anima le pagine dell’ultimo romanzo di Peter Cameron, Cose che succedono la notte (traduzione di Giuseppina Oneto, in uscita da Adelphi, pp. 241, € 19,00) sessantenne autore del New Jersey, presumibilmente più noto da noi che in America, dove la sua gradevole inclinazione all’intrattenimento non riscuote un particolare interesse. Letti uno dopo l’altro, sebbene a distanza di anni, i romanzi di Cameron rivelano, in effetti, una sorta di appagamento nella storia, un accontentarsi del poco che i deboli misteri di una trama possono portare in dote a un romanzo, come se la priorità assegnata alla vicenda non richiedesse di venire disturbata da questioni che non ne riguardano la coerenza dello svolgimento, e la lingua si ponesse, eventualmente, solo problemi di servizio.

Il suo romanzo migliore resta Coral Glynn (Adelphi, 2012) dal nome dell’infermiera protagonista, che nella primavera del 1950 approda in una villa della campagna inglese per assisterne la irascibile padrona, e nel poco tempo che trascorre fino alla morte di lei, accetta la proposta di matrimonio del figlio, un maggiore invalidato dalle ferite riportate in guerra; ma l’unione dei due durerà un solo giorno, e nulla verrà chiarito di quanto è intervenuto a separarli.

Entra un taumaturgo
Diversa la qualità del mistero che governa l’ultimo romanzo, dove una coppia americana si spinge all’estremo confine dei paesi nordici per ritirare, dall’orfanotrofio locale, il bambino che dopo defatiganti trattative hanno ottenuto in adozione, malgrado lei sia una malata terminale, cui resta forse meno di un anno di vita. L’andirivieni del mai chiamato per nome «uomo» negli algidi spazi dell’albergo al quale i due coniugi approdano gli mette davanti i tre personaggi più inquietanti del romanzo: una donna già anziana e autoesiliata dai trascorsi della vita in quel luogo remoto, che si fa tramite prepotente e invasivo del di lei fratello, tale Emmanuel, carismatico guaritore nonché compassato ciarlatano, il quale con arie da sommo interprete dei destini del mondo guadagna a sé la povera moglie del protagonista.

Indifferente alle proteste del marito, la donna deciderà di consegnarsi al taumaturgo, e presso di lui finisce i suoi giorni, pretendendosi guarita e ormai disinteressata al bambino, la cui adozione con tutte le sue forze aveva inseguito fin lì. Altro avventore stabile dell’albergo in cui la coppia si rifugia, un uomo d’affari gay, che adesca il protagonista e dopo averlo coinvolto in una serata in cui viene derubato e malmenato, si prende cura di lui, e approfitta della sua incoscienza per soddisfare le proprie pulsioni.

Fin troppo marcato, il contrasto tra la razionalità amabile del personaggio principale e la volubilità isterica della donna che è sua moglie dà luogo a dialoghi piattamente aderenti all’inessenziale, per esempio mentre i due procedono alle ordinazioni a tavola; di contro, del tutto scollate dalla realtà sono le divagazioni della mente di lei, che non perciò sprigionano fascino, anzi, semmai una ennesima variazione sulla banalità del male. La sua condizione di malata la obbliga perlopiù a letto, ma le due apparizioni che Cameron le destina all’inizio e alla fine del romanzo, sulla banchina gelida di una stazione di transito, le conferiscono lo statuto di spettro di se stessa, turbando l’animo del marito più di quanto non increspino la piatta superficie del romanzo.

Dialoghi iperrealisti
Sebbene attardato in uno svolgimento che i dialoghi pedissequi aggravano invece di animare, Cose che succedono la notte ribadisce la riconoscibilità di Cameron: non tanto per la sua voce priva di connotazioni idiosincratiche, quanto per quel dosaggio discreto di sospensione fra il detto e il non detto, fra consequenzialità e dissonanze, fra logica degli eventi e loro deragliamento, che si configurano come deviazioni mai brusche, e tuttavia sufficienti a determinare la debole tensione di un disagio, che è il vero motore di ogni racconto dello scrittore americano, e la motivazione a non staccarsi di chi legge.