«Le mie fotografie sono come questi fiori.» – dice Rosa Foschi (Urbino 1943, vive e lavora a Roma) sul pianerottolo dell’appartamento al terzo piano, con affaccio sull’assolato cortile interno. Intanto sfiora una foglia, poi i petali dell’ortensia – «Sono un po’ veri e un po’ finti. Mi dimentico sempre di dargli l’acqua. Crescono da sé.» La sigaretta accesa e in testa il cappello di paglia da uomo (i cappelli sono la sua grande passione), sorride sottolineando (ancora una volta) che per lei la fotografia è «boutade: non una cosa seria, puro divertimento». L’ispirazione dei «teatrini» nasce proprio tra le mura domestiche, nel disordine vitale della sovrapposizione di oggetti: «in questa casa abbiamo molti tavoli su cui sono sparsi cataloghi, fotografie, appunti… Se esci dalla stanza e poi ci torni ecco che trovi l’immagine già composta.» Filmmaker, pittrice e fotografa Rosa Foschi è autrice, tra la metà degli anni ‘60 e gli anni ’70, di cortometraggi in disegno animato, tra cui Amour du cinéma (1969), Ma femme (1970), L’amore di Don Perlimplino con Belisa nel giardino (1971) e Amore e Psiche (1971) prodotti dalla Corona cinematografica.

Tra le fotografie (quasi sempre mai stampate all’epoca) c’è anche un cospicuo nucleo di polaroid in parte donato dall’autrice all’Archivio del CRAF – Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia di Spilimbergo. Nel 2019, in occasione della personale alla galleria Il Ponte di Firenze, è stato pubblicato il catalogo Polaroid ROSA & film FOSCHI (Gli Ori), a cura di Ilaria Bernardi. Rosa Foschi ha scritto anche libri di poesia, fra cui Woodnote (2005) e illustrato i libri di Paolo Valesio, Carlo Bordini e Attilo Lolini. Come in un gioco di specchi – mantenendo sempre una dichiarata autonomia, sia sul piano professionale che nella vita matrimoniale – il volto di Rosa e quello di Luca Maria Patella compaiono nelle opere dell’una e dell’altro. Alcune volte sono insieme, come in Gli Arnolfini-Mazzola a Montefolle (1980) di Patella che di lei dice «Rosa è l’altro da me, sul piano psicologica diciamo che è l’anima junghiana». Mentre il volto di Luca è «citato» nelle polaroid di Rosa spesso associato, in uno stimolante scambio di nonsense e doppi sensi, a Man Ray o Duchamp. L’ironia è, certamente, il loro terreno di condivisione. «L’ironia aiuta a vivere», afferma l’artista.

Da Urbino a Roma passando per Milano: siamo negli anni Sessanta…

A Urbino c’era l’istituto che si chiamava Scuola del Libro con varie sezioni, fra cui grafica pubblicitaria e disegno animato. Durava cinque anni, per i primi due si seguivano tutti i corsi poi si poteva scegliere. Feci disegno animato. Poi andai a Milano perché volevo dedicarmi alla moda, nel frattempo alcuni miei vecchi compagni che avevano fatto animazione andarono a Roma. Decisi anch’io di andarci e feci il concorso per il Centro Sperimentale di Cinematografia. Fui presa! Per circa un anno ho anche diretto la galleria del Girasole dove ho conosciuto Luca. Ci siamo sposati nel 1966. All’epoca anche lui faceva mostre all’Attico, come altri artisti tra cui Pascali, ma per guadagnare lavorava nell’animazione. Nessuno di noi, però, la considerava come professione artistica. Luca collaborava con la Corona Cinematografica, così capitò che anch’io proponessi a Gagliardo (la società fondata dai fratelli Ezio, Fulvio ed Elio Gagliardo produsse dal dopoguerra al 1997 circa duemila documentari, cinegiornali e film di animazione oggi conservati alla Cineteca di Bologna e alla Cineteca Nazionale – CSC di Roma –ndr) dei lavori di animazioni.

Allora c’erano i Premi di Qualità del Ministero dello Spettacolo e Roma era piena di piccole case di produzione dove molta gente del cinema si è fatta le ossa. Pagavano poco ma ci facevano fare quello che volevamo. Ezio Gagliardo mi chiese di fare un’animazione non tradizionale per poter concorrere ai premi. Così feci quelle mie cose di montaggio, disegno e fotografia di cui alcune foto erano mie e altre di Luca. In tutto realizzai sei documentari, cortometraggi a 35mm che vinsero premi e furono presentati a diversi festival, fra cui Oberhausen, Annecy e il Festival dei Popoli di Firenze. Pensava a tutto la casa di produzione che ne deteneva i diritti, a noi andava una percentuale sul premio che era di circa l’1%. Il mio primo cortometraggio Amour du cinéma è stato presentato anche alla Tate Modern di Londra nel 2015, in una rassegna sul cinema sperimentale (nella scheda tecnica viene definito «senza dubbio un film singolare con sfumature pop» – ndr). Mi fu chiesto di mettere anche il nome di Luca così compare regia di Rosa Foschi con la collaborazione di Luca Patella. In generale non parlavo mai a nessuno del mio lavoro perché mia madre mi ha insegnato che è sempre meglio non apparire e non parlare di sé. Poi ho smesso negli anni ’70 perché stava diventando complicato. Nel frattempo scrivevo anche poesie. Tutto il mio lavoro si è svolto per caso.

Torniamo alla fotografia…
Ho sempre fotografato senza dare importanza alle cose. In casa, a Urbino, avevo diverse macchine fotografiche fin da quando andavo a scuola. Ho sempre avuto la passione per l’immagine. Ma non fotografavo mai i paesaggi, perché ci sono fotografi così bravi che mi chiedo sempre cosa potrei fare di meglio. Le mie foto sono fatte in casa. Costruisco dei piccoli set, delle scenografie che monto sui tavoli. Sono come dei teatrini, ci metto anche delle scritte e poi li fotografo soprattutto con la polaroid. Non so se chiamarle fotografie, teatri, scenografie o nature morte. Non appena avrò messo ordine a un po’ di cose, vorrei portare avanti la mia serie di nature morte che non sono intese nel senso classico. Sono nature morte con persone, perché credo che ognuno di noi assomigli a un frutto o ad un ortaggio. Ci metto anche delle scritte. In fondo, la fotografia sintetizza i miei diversi passaggi nel campo della grafica e dell’animazione. È un connubio che deriva anche dalla fotografia surrealista che mi è sempre piaciuta. Le polaroid sono degli anni ’90, prima fotografavo con la pellicola. Non fotografo in digitale, ma uso il cellulare per fotografare i gatti per strada – sono una gattara! – o piccole cose che mi colpiscono. Sono una grande dilettante, tanto per essere chiari. Una a cui piace la poesia e scrive poesie, fa i libri in esemplare unico per i poeti, disegna acquerelli – ho realizzato anche acqueforti – e fa fotografia. Una volta si diceva che chi fa troppo non fa niente. Nel mio caso il mio non fare niente vuol dire fare felice me stessa, perché faccio quello che voglio.

La scelta della polaroid dipende anche dalla sua immediatezza?
Mi andava molto bene perché era facile da usare e non c’era il cavalletto. Per me la fotografia è come un pensiero, un sogno. Non è un’immagine che vedo per strada. Mi viene in mente qualcosa e la creo. Mi piace la fotografia che si può raccontare come una favola o una «favolaccia», come nelle mie foto di Pinocchio, un lavoro che non è ancora concluso: prima o poi vorrei farne un «librino». Per me Pinocchio – io stessa sono Pinocchio in alcuni autoritratti dove tengo in mano il Pinocchio – è un bambino che il padre ha reso di legno. Geppetto è un uomo legnoso, ha fatto un figlio di legno e questo pezzo di legno deve riuscire a tirar fuori la sua anima. Fa molti incontri, tra cui la fatina che per me incarna non la mamma, ma un che di erotico. È per questo che lo metto spesso con una gamba femminile nuda, lui la guarda e c’è anche la mela. Talvolta aggiungo anche delle scritte, magari anche una mia poesia come «io suono/ io sono / io sento / il suono / del sono». Io sono Pinocchio, tutti noi siamo Pinocchio. Cerchiamo di uscire dalla legnosità per ritrovare la nostra anima, abbiamo i nostri sogni.

Nelle tue immagini fotogafiche oltre ai riferimenti artistici e letterari, da James Joyce a Majakóvskij, c’è anche il cibo…
Sono una grande mangiatrice di frutta. Le mie nature morte nascono proprio dal cercare delle somiglianze tra le persone e la frutta o gli ortaggi. Può capitare che vedi una persona e ti sembra una mela, come pure si dice «è aspra come un limone». Mi piace cucinare e sono molto attenta a quello che mangio. Il mio piatto preferito è la pasta – tagliatelle sottili – con un condimento di noci tritate con le olive, olio d’oliva e una puntina di limone anche grattugiato. Oppure, al posto del limone, delle scaglie di pecorino e delle mandorle. Fa benissimo! La carne, poi, non la cuocio mai nell’olio, solo nel vino rosso, diventa più tenera e saporita. Insieme alla carne metto a cuocere nel vino anche tante cipolle di Tropea. Mangio tanto yogurt e il melone lo taglio a metà e lo riempio di mirtilli rossi che fanno bene alla vista. Della cucina mi piace sia l’aspetto creativo che quello salutare.