A tre anni di distanza da Electric, capolavoro della «vecchiaia» all’ennesima potenza, i Pet Shop Boys, il duo britannico composto da Neil Tennant e Chris Lowe, festeggia i trent’anni di sodalizio con Super, uscito in questi giorni, dodici tracce «equilibriste» che sembrano coincidere alla perfezione con un momento storico, nella cultura musicale non solo underground, debitore di quel sound da queer club capace di trasformare in sublime un certo cattivo gusto, «attività» spesso praticata dal pioneristico duo inglese.

Considerati, troppo spesso e a torto, come vuote meteore anni ’80 alla perenne ricerca del passo coi tempi, i Pet Shop Boys degli ultimi anni invece hanno dimostrato quanto può essere vincente la scelta di cristallizzare un sound, e uno storytelling, senza diventare controfigure di se stessi e in Super, seconda parte di un’annunciata trilogia (il prossimo disco sarà incentrato solo su alcune ballad rimaste fuori dalle ultime tracklist) lo spettro sonico dei due si arricchisce ancora di più senza retrocedere in facili nostalgie.

In primis, ritroviamo il produttore Stuart Price, il deus ex machina dell’ultimo decennio dance/pop (dall’ultimo «vero» disco di Madonna Confessions on a dancefloor alle produzioni per i Killers fino alla recente resurrezione di Kylie Minogue), col quale i Pet Shop Boys avevano già collaborato nel 2009 per Christmas e per il live Pandemonium. Fin dai primi beat dell’apripista Happiness, il disco sembra voler proseguire nella scia euforica del precedente ma, rispetto alla compattezza cristallina di Electric, Super si colora subito di sfumature capaci di tracciare le coordinate delle tendenze della dance contemporanea: dai minimalismi del Berghein berlinese ai calori di una certa Latin House fino a qualche tentazione Eurodance svedese in puro stile Avicii.

https://youtu.be/LHyNTcKKy88

Il sound del duo si amalgama così, senza fratture, ai ritmi codificati di classici senza tempo come Paninaro e So Hard ma, in tutto questo caleidoscopico impasto musicale fra presente e passato, rimangono però intatti i segni caratteristici che fin da subito hanno forgiato l’identità del duo: la nitidezza vocale, la perfezione quasi robotica delle canzoni ma soprattutto la grandezza «testuale» di Neil Tennant.

Acuto, a volte esilarante, osservatore della gioventù alienata in Twenty-something («Controlli i tuoi pensieri mentre cammini per strada, i 30 anni sono dietro l’angolo, le tue idee saranno ancora trendy?»), ineluttabile nostalgico nel singolo The Pop Kids («Ci chiamavano i ragazzi del pop perché amavamo le hit e citavamo le parti migliori»), spietato spettatore politico che sembra alludere a Donald Trump in The Dictator Decides («Hai mai sentito un mio discorso? Mi invento le cose, sembro un demente e non faccio nemmeno demagogia») ma soprattutto cantore oscuro e malinconico della disumanizzazione moderna che ancora cerca, nelle pieghe della notte, un brivido di vita.