Nato a San Francisco il 2 novembre 1938, Richard Serra amava ricordare un evento saliente, vissuto da bambino. All’età di quattro anni si appresta a percorrere il Golden Gate Bridge. Deve raggiungere il cantiere navale dove il padre lavora come tubista. Giunto sul posto, davanti ai suoi occhi scorge una petroliera pronta per il varo. L’impatto è intenso. Indimenticabile. Ai suoi occhi di bambino quella massa di ferro somiglia a un grattacielo posato su un fianco. Quando i cavi vengono tagliati e la nave inizia a scivolare verso il mare demolendo le traversine che la guidano nel percorso, Serra percepisce un improvviso cambiamento di stato: quella specie di monumentale peso morto si libra ora leggero sull’acqua. A pensarci bene, è come se il suo lavoro d’artista, il cuore del suo lavoro, sia stato innescato dal riverbero di questa esperienza: «Tutta la materia prima di cui avevo bisogno è contenuta nella riserva di questo ricordo che è diventato un sogno ricorrente», osserverà in un’intervista.

MA PRIMA DI LAVORARE con materiali come la gomma, il piombo, l’acciaio, si sposta a Ovest e studia a Yale. Del periodo passato all’università, ricorda le visite e l’influenza di artisti come Frank Stella e Robert Rauschenberg. Siamo nei primi anni ’60. Dipinge utilizzando barattoli di vernice e un cronometro, trasferendo nella pittura l’esperienza del caso cara a William Burroughs e John Cage. La Pop Art è nel suo pieno svolgimento, e a New York inizia a farsi strada il minimalismo. Serra sembra poco interessato agli elementi Pop, fatta eccezione per le opere in gesso di Claes Oldenburg. Il tema della gravità, del peso, accompagnerà la sua carriera insieme a un altro interesse, quello per l’entropia. Sono elementi che nota in un altro artista di cui diventa presto amico: Robert Smithson. Questioni che entrambi discutono, contrapponendosi alle costruzioni chiuse, definitive, di artisti come Andre o Sol LeWitt. Serra e Smithson tendono invece a lasciare nei loro lavori una fessura, un dubbio, un margine di impensato.

LE PRIME OPERE DI SERRA, realizzate con piombo fuso schizzato, rimandano, oltre alla dimensione del collasso, a un principio aleatorio.
Peso, entropia, caso. «Credo che il significato dell’opera stia nello sforzo, non nelle intenzioni. E lo sforzo è uno stato mentale, un’attività, un’interazione con il mondo», dichiarerà a Lisa Bear in un’intervista dell’ottobre 1973. Sta riflettendo su un’opera da poco terminata, dedicata a Robert Smithson: Spin Out. L’amico è mancato pochi mesi prima. L’aereo su cui volava si è schiantato al suolo mentre scattava foto aeree del suo ultimo lavoro. Ancora la gravità.

Sforzo, stato mentale, attività, interazione col mondo. Azioni. Come non pensare a quel testo scritto nel 1967, Verb List, che è un a sorta di programma. E questo piano di azione si rovescerà nelle sue sculture più note. Così come nei disegni. Rotoli di piombo. Cubi. Pesantezza dei materiali, acciaio, rapporti di scala rispetto all’ambiente. Vogliamo ricordare la qualità statica di Rotary Arc (1980), o la sezione dello spazio eseguita della sottile curvatura metallica di Tilted Arc (1981) un lembo di acciaio leggermente inclinato, lungo quaranta metri, alto quattro, che taglia in due Federal Plaza a New York, dove ha sede l’FBI, poi smontato nel 1989 dopo una lunga diatriba finita in tribunale, i cui documenti sono ora racchiusi in un libro: The Destruction of Tilted Arc: Documents (MIT Press, 1991).

QUESTE OPERE senza piedistallo trasformano l’ambiente che le circonda? La dimensione «teatrale» dei siti viene alterata. Lo spazio si curva, si contrae, si distende. La vista viene spesso ostruita. Ci troviamo proiettati in un nuovo universo, modulato, plasmato dalle sculture stesse.
Un po’ quello che succede anche davanti alle foto di Clara-Clara (1983) scultura posta temporaneamente all’interno del giardino delle Tuileries. Eppure, ricorda Serra, il contesto tende spesso a definire il contenuto. Certi contesti sono così precisi e definiti, a tal punto che l’opera deve essere davvero convincente per non diventarne succube. Ed è per questo che Serra ha spesso scelto anonimi spazi urbani (o naturali) come sito dove installare le sue sculture: «Se costruisci un’opera per strada, non stai servendo alcuna ideologia definita, se non la sporca realtà della vita di tutti i giorni».

Rivedendo Hand Catching Lead (1968), per non parlare di Railroad Turnbridge (1975-76), possiamo notare come anche nei suoi film questa dimensione della gravità, dello sforzo, insomma, del lavoro, emerga in maniera cristallina. Davanti a quel ponte che ruota modificando il punto di fuga dell’immagine, davanti questa sinfonia del ferro, ripensiamo a quella petroliera che aveva visto da bambino. Quel ponte gli avrà fatto il medesimo effetto?