La motovedetta della Guardia Costiera CP828 si allontana lentamente dal porto di Pescara. Trasporta una tartaruga marina Caretta caretta che, dopo una lunga convalescenza, torna a nuotare in mare.
L’imbarcazione procede all’interno di un corridoio punteggiato da boe gialle che segnalano una serie di reti fisse da posa. Bisogna arrivare almeno a tre miglia a largo dalla costa per essere certi di rilasciarla lontana da queste potenziali trappole. Il suo nome è Falkor, come il fortuna-drago del romanzo “La storia infinita” di Michael Ende. E di fortuna questa tartaruga, una volta tornata in mare, ne avrà certamente bisogno.

È UNA DELLE TARTARUGHE MARINE che ogni anno sono curate dal lavoro del personale del Centro Studi Cetacei “Luigi Cagnolaro” www.centrostudicetacei.it di Pescara. Recuperata all’interno di una rete a strascico, la sua riabilitazione ha avuto bisogno di oltre sei mesi di convalescenza per una grave forma di polmonite dovuta all’ingestione di acqua e sedimento marino.
Nel mar Mediterraneo sono presenti 3 delle 7 specie di tartarughe marine esistenti al mondo. La tartaruga verde Chelonia mydas e la tartaruga liuto Dermochelys coriacea sono molto rare, mentre la più comune e diffusa è la tartaruga Caretta caretta. Ha un tipico carapace marrone rossiccio e un piastrone ventrale giallo, testa coperta da evidenti squame marroni, lunghezza massima di 100 cm e un peso che può raggiungere i 160 kg. E’ un rettile adattato alla vita acquatica, con zampe modificate in pinne e la possibilità di compiere lunghe apnee e raggiungere i 50 metri di profondità. Vive al largo delle coste di tutto il mondo ad esclusione delle acque fredde settentrionali.

Nel Mediterraneo, il mare Adriatico è frequentato, in particolare nella stagione invernale, da migliaia di tartarughe che vengono attratte dalla sua elevata pescosità. Qui trova alcune delle sue prede preferite, come la seppia Sepia officinalis, lo scampo Nephrops norvegicus e la canocchia Squilla mantis. Per un motivo analogo, un’abbondante flotta di pescherecci si muove continuamente sulla superfice di queste acque che, con reti attive sempre a maggiori profondità, è responsabile dell’evidente sovrasfruttamento delle risorse ittiche di questo piccolo mare.

DALL’INIZIO DEL NUOVO MILLENNIO si è registrato un calo di oltre il 50% nelle popolazioni adriatiche di pesce di profondità come nasello Merluccius merluccius, triglia Mullus barbatus e spigola Dicentrarchus labrax, ma anche tra cefalopodi e crostacei, che insieme rappresentano circa la metà del commercio ittico italiano. Questo fa comprendere gli importanti interessi economici legati alla pesca in Adriatico, e la continua presenza di molti grandi pescherecci, estranei alle marinerie locali, che da soli catturano oltre il 70% del pescato disponibile.

Tra Pescara e Spalato, la fossa di Pomo, con una profondità di 270 metri, è la principale nursery di specie importanti come il nasello e lo scampo, e uno dei luoghi a maggiore biodiversità del mare Adriatico. È qui che le tartarughe transitano ogni anno e stazionano per completare il loro accrescimento; ma è anche uno dei punti del Mediterraneo in cui la pesca a strascico è la più intensiva e meno selettiva. Grazie al lavoro di informazione e ricerca di associazioni ambientalistiche, università e organizzazioni onlus come MedReAct, nel 2017 si è riuscito ad ottenere la chiusura parziale alla pesca nella fossa di Pomo, una azione necessaria per il recupero della fauna ittica dell’Adriatico e la tutela per tutte le tartarughe che venivano pescate in questa area marina.

SE QUI È STATO RAGGIUNTO un importante risultato verso una sensata gestione delle risorse, il resto dell’Adriatico continua a essere percorso da pescherecci con scarsa consapevolezza e riserva per il suo eccessivo sfruttamento. In un tempo in cui il pescato si fa più modesto, gli strumenti di pesca diventano al contrario sempre più invasivi ed efficaci. Le tradizionali reti a strascico di paranza, che pescano in superfice e senza danneggiare i fondali, sono spesso sostituite dalle reti di tipo americano che riescono ad arare pesantemente il fondale per catturare gamberi e pesci anche all’interno dei rifugi – un peschereccio arriva adesso a trainare più reti e può catturare involontariamente fino a venti tartarughe in una sola battuta di pesca. Nel Mediterraneo, il numero delle tartarughe che restano intrappolate nelle reti a strascico è stimato in oltre 40.000 esemplari ogni anno, e la probabilità di sopravvivenza conseguente la cattura è sempre molto bassa. All’interno di una rete si sommano fattori di stress, traumi alla cute e al carapace con gravi forme di annegamento.

PER QUESTO MOTIVO OGNI TARTARUGA pescata deve sempre essere consegnata alle Capitanerie di Porto per il ricovero, in quanto l’animale potrebbe avere ingerito insieme all’acqua anche del sedimento marino, che spesso causa mortali setticemie polmonari.

Lungo la costa dell’Adriatico operano diversi centri di recupero per le tartarughe, da Riccione fino alla riserva marina di Torre Guaceto in Puglia. Sono strutture specializzate in cui operano veterinari e biologi marini, nella maggior parte dei casi a titolo volontario, così come tutto il personale addetto alla stabulazione degli animali ricoverati.

IL CENTRO STUDI CETACEI DI PESCARA è rappresentativo sulle problematiche di recupero per le tartarughe in centro Adriatico. Vincenzo Olivieri è il veterinario responsabile della struttura. È lui che ha “tastato” la pinna a ogni tartaruga portata a riva sulle coste abruzzesi e molisane negli ultimi trent’anni. C’è profumo di mare e di pulito tra le vasche che accolgono i suoi pazienti, e un profondo silenzio interrotto solo dal gorgogliare dell’acqua nei filtri. Ad esclusione dei casi più gravi, molte delle vasche sono vuote. Il maggior numero di ricoveri si ha durante la stagione invernale, quando la pesca in Adriatico è più intensa. È allora che le mareggiate portano sotto costa centinaia di tartarughe morte o semi annegate dalla permanenza all’interno delle reti a strascico. «Una tartaruga può restare in apnea per quasi due ore in condizioni normali», afferma Olivieri, «ma lo stress della cattura con una rete comporta un maggiore consumo di ossigeno da parte della tartaruga, che in breve tempo la porta all’annegamento».

MARE CHE VAI, PESCA CHE TROVI. Nel mar Ionio, per la sua maggiore profondità rispetto all’Adriatico, è diffusa la pesca con il palangaro – un lungo cavo a cui sono legati a intervalli regolari centinaia di spezzoni di lenza con all’estremità l’amo con l’esca. A seconda della modalità di posa e del tipo di esca utilizzata si possono pescare specie di profondità pregiate come tonno rosso Thunnus thynnus, tonno alalunga Thunnus alalunga e pesce spada Xiphias gladius. E naturalmente anche tartarughe.
In Calabria, all’interno della dismessa stazione ferroviaria di Brancaleone, è stato creato un piccolo ma efficente centro per il loro recupero e riabilitazione www.crtmbrancaleone.it . «Delle 70 tartarughe che curiamo ogni anno, l’80% ha ingerito dei palangari, e nella quasi totalità delle 150 che troviamo morte sulla spiaggia troviamo ami conficcati in bocca e gravi lesioni interne».

FILIPPO ARMONIO, IL RESPONSABILE del centro, è diretto nell’individuare in questo sistema di pesca la principale causa del ricovero delle “sue” tartarughe. «Lungo la nostra costa la maggior parte della marineria pesca in maniera irregolare, con strumenti non consentiti o non in regola. E così quando le tartarughe abboccano ai palangari sono liberate tagliando la lenza e ributtate in mare con l’amo in bocca. Condannando gli animali a morte certa». Mi segnala che la situazione dei ritrovamenti di tartarughe morte e spiaggiate si fa critica poco distante, in tutta la zona dello stretto di Messina. Qui i grandi pescherecci provenienti da marinerie lontane, come Brindisi, Taranto o Catania, mettono in mare migliaia di palangari senza tornare in porto per diversi giorni e ovviamente senza mai consegnare alla capitaneria le tartarughe pescate.

SI STIMA CHE QUESTO METODO DI PESCA catturi nel mar Mediterraneo circa 70.000 tartarughe. Ma il sottile filo che minaccia la vita delle tartarughe in mare, non è quello delle reti a strascico o la lenza del palangaro, ma una presenza ancor più letale e silenziosa. L’ingestione accidentale di sostanze plastiche è infatti riportata nella quasi totalità delle tartarughe recapitate vive o morte nei centro di recupero in Italia. «A prescindere dalla diagnosi di ricovero, ogni tartaruga durante le prime settimane di stabulazione in vasca, espelle con le feci grandi quantitativi di plastica» dice Vincenzo Olivieri. «Nei casi meno gravi la plastica attraversa tutto l’apparato digerente senza causare apparentemente danni; ma ci sono animali che presentano gravi occlusioni intestinali tali da avergli causato la morte», continua.

LA PLASTICA ABBANDONATA IN MARE è un pericolo subdolo che, con il tempo, assume forme e dimensioni diverse. Depositandosi sul fondo o galleggiando in acqua, è spesso ingerita perché assomiglia alle prede più comuni delle tartarughe, come seppie, meduse, salpe e scampi. Ma accade anche di restare intrappolate in agglomerati di plastica fatto da residui di sacchi, bottiglie e pezzi di rete galleggianti, impedendogli di nuotare e trovare cibo.

È successo con Charlie, una giovane tartaruga trovata alla deriva a Pescara, che non riuscendo a immergersi si è nutrita per settimane della plastica che mangiava in superfice. Oppure con la tartaruga Nazzareno ricoverata adesso a Brancaleone, che nonostante le sue dimensioni di un metro e mezzo di carapace e un peso di 90 kg, ha ingerito tanta plastica nello stomaco da non riuscire più a immergersi.

DOPO MILIONI DI ANNI IN CUI LE TARTARUGHE hanno vissuto pacificamente nel mare, perfettamente in equilibrio con il proprio ecosistema, la loro sopravvivenza è adesso seriamente minacciata dagli scarti prodotti dalla nostra società in pochi decenni.
A tre miglia dalla costa, la motovedetta CP828 della Guardia Costiera spegne il motore e lascia andare la tartaruga Falkor, che si tuffa in un meraviglioso mare. Un mare che adesso nasconde nuovi nemici e diventa sempre più pericoloso.