Come per un ripasso generale di storia del cinema la serata dedicata dalla Mostra di Pesaro al Concerto muto di N.A.I.P. in piazza del Popolo ha offerto la sorpresa di rivedere i classici del cinema d’avanguardia degli anni venti, da Man Ray a Walter Ruttman al Ballet mécanique di Fernand Léger come a percorrere una delle due strade possibili: non il cinema narrativo ma quello sensoriale, surreale, ispirato alle arti visive, quello che ha bisogno della partecipazione attiva dello spettatore, e ci fa partecipi della novità del mezzo tecnico all’inizio del secolo.

Questo evento sembra indicare la scelta dei film in concorso, alcune in sintonia con la ritmica della percezione come Daichi Saito con eartheathearth dove il rombo della terra si accompagna alla variazione della luce su paesaggi deserti apparentemente senza presenza umana come uno sguardo alieno su un pianeta sconosciuto con percezione visiva al negativo e bicolore, un tipo di sguardo non umano su un paesaggio non abitato. Con una tecnica scientifica che ricorda le scelte di Ruttman, Daichi Saito, regista di origini giapponesi che vive a Montreal con film selezionati in festival di tutto il mondo, con una Rolex 16mm e l’improvvisazione sonora del sassofonista Jason Sharp registrata con dodici microfoni in modo da cogliere ogni respiro del vento e rombo della terra vuole «conferire alle immagini una qualità sovrannaturale al fine di far emergere quel tipo di presenza che i paesaggi celano al di sotto della superficie». Si possono solo immaginare, ma si tratta effettivamente della ripresa dei paesaggi del deserto di Atacama e delle Ande.

MA È SUL RAPPORTO immagine parola che si è sviluppata la fantasia dei cineasti, soprattutto in un periodo di scarsa mobilità: da cinque lettere trovate nella casa dei nonni in Galizia e da un ritratto fotografico di cui restano poche tracce (un sorriso) Xacio Baño ricostruisce in Aguas Abisais (Acque profonde) la storia del soldatino diciassettenne arruolato nel ’38 e ucciso qualche mese dopo, dove si percepisce il ragazzino che diventa uomo nel giro di pochissimo tempo: un lavoro sulla luce, sul «fare luce» su eventi del passato e sulla memoria, sulle coordinate spazio temporali, su come incantare il pubblico anche solo a partire da poche tracce scritte, «una sfida per trovare la versione visiva». Ancora più estremo nel versante della scrittura e della commedia è Non ci sono trentasei modi di salire a cavallo dell’argentino Nicolas Zuckerfeld, professore universitario che unisce la precisione accademica con l’umorismo. L’obiettivo è indagare se sia stata veramente pronunciata da Raoul Walsh la frase del titolo, con una prima parte di montaggio dei film western che esemplificano l’azione ripetuta sempre uguale (con variazioni da parte degli indiani che cavalcano a pelle) e una seconda realizzata al computer a causa del lockdown e con voce fuori campo a interrogare online colleghi critici, amici e biblioteche online, e archivi.

A partire dalla reale citazione di Walsh da parte di Edoardo Cozarinski: «C’è un solo modo di aprire una porta» parte una minuziosa indagine dove bastano solo le frasi scritte sullo schermo a farci fare una cavalcata del mondo della teoria del cinema, ponendoci il grande dilemma tra semplicità e accuratezza scientifica, riflessione sul cinema come modo di ricreare la realtà. «Mi ha sempre annoiato l’accuratezza delle citazioni accademiche – dice il regista – volevo utilizzarle in modo ludico». E raggiunge anche lo scopo di mostrare come il cinema classico sia apparentemente semplice ma anche molto misterioso.

Altre parole brucianti sono quelle del quaderno di Edna, scritte a caratteri larghi e ariosi, ma che raccontano la tragedia di una guerrigliera dell’Amazzonia che ha subito torture e prigionia, paure, furore e poesia: Edna, il film di Erik Rocha è emozionante perché crea il collegamento con tanto «cinema novo» visto al festival negli anni ’70 dove il celebre padre del regista Glauber Rocha era ospite abituale.

INCONTRATA dal regista come protagonista di una pièce teatrale sulle guerrigliere dell’Amazzonia del nord, Edna porta su di sé le tracce del passato in lotta per la difesa della terra, una guerra iniziata negli anni Settanta che non è finita. La donna procede comunque per la sua strada con una voce sussurrata di chi è stata costretta al silenzio, tra poesia e sofferenza «come un collettivo che porta sulle sue spalle un popolo intero che ha vissuto quella stessa resistenza».