Al grido di «Keiko no va», migliaia di peruviani – rappresentanti di organizzazioni politiche, movimenti studenteschi, associazioni in difesa dei diritti umani, gruppi di cittadini – sono scesi in strada a Lima e in diverse altre città, il 29 maggio e di nuovo il primo giugno, contro la figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori che domani si giocherà la presidenza del paese contro il maestro e dirigente sindacale di sinistra Pedro Castillo.

UN’EVENTUALE VITTORIA della «Signora K», come viene chiamata la leader di Fuerza Perú, avrebbe in effetti per larghi strati della popolazione i contorni di un incubo, e non solo perché su di lei, già due volte arrestata per finanziamento irregolare alla sua campagna elettorale del 2011, pesa una possibile condanna a 30 anni di carcere, richiesta dalla Procura per i reati di riciclaggio di denaro, organizzazione criminale e ostruzione alla giustizia.

Ma anche perché Keiko incarna tutto il peggio di una classe politica tra le più screditate al mondo, rivendicando con orgoglio l’eredità del padre condannato a 25 anni di prigione, al quale, se venisse eletta, concederebbe immediatamente l’indulto: con lei, non ci sono dubbi, il Perù andrebbe incontro allo stesso destino di feroce neoliberismo, corruzione, autoritarismo, violazione dei diritti umani.

Artefice indiscussa di una strategia parlamentare segnata da una costante vocazione golpista, coltivata dal suo partito fin dal momento in cui nel 2016 è stata sconfitta da Pedro Pablo Kuczynski, a cui poi sarebbero seguiti altri tre presidenti in appena due anni, la «Signora K» non ha esitato a firmare solennemente il «Proclama» di rispetto dell’ordine costituzionale redatto dalla Chiesa cattolica e da quella evangelica, presentandosi oltretutto come paladina della democrazia contro la «minaccia comunista» rappresentata da Castillo.

Ed è proprio in nome della democrazia disegnata dalle élite che il portavoce di Fuerza Perú Fernando Rospigliosi è arrivato a dichiarare che nel paese i popoli indigeni sono un’invenzione delle ong e che i difensori dell’ambiente non sono altro che i vecchi marxisti mascherati da ecologisti, protagonisti di una battaglia inutile dal momento che «la moderna attività mineraria non inquina».

È IN QUESTO QUADRO che Pedro Castillo, il candidato che, con il suo linguaggio semplice e diretto, rappresenta contadini e indigeni del Perù profondo, emarginato e disprezzato, promette un’Assemblea costituente per superare la Costituzione fujimorista del 1993, che, ha denunciato, ha calpestato i diritti e saccheggiato il paese; rivendica la necessità di una riforma agraria; mira al recupero dell’attività agricola; attacca i trattati di libero commercio, i quali, ha detto, hanno reso i peruviani dipendenti dalle esportazioni; assicura la piena applicazione della Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro sui diritti dei popoli indigeni e la ratifica dell’Accordo di Escazú.

È NATURALE, allora, che si sia scatenata contro di lui una campagna feroce, diretta in particolare a vincolarlo – attraverso il suo presunto e mai provato legame con il Movadef (Movimiento por Amnistía y Derechos Fundamentales) – a Sendero Luminoso, a cui tutti gli organi di stampa si sono affrettati ad attribuire il massacro di 18 persone realizzato il 23 maggio nel Vraem (Valle dei fiumi Apurímac, Ene e Mantaro), malgrado lo stesso comandante generale della polizia, César Cervantes, non avesse potuto confermare la notizia. Senza contare che, lungi dall’appoggiare Castillo, il Movadef ha invitato ad annullare il voto.

ALLA CAMPAGNA contro il candidato di sinistra – sostenuto dalla leader progressista Veronika Mendoza, da lui sconfitta al primo turno dell’11 aprile – ha preso attivamente parte anche un gruppo di ex militari vincolati al fujimorismo, i quali hanno denunciato presunti rischi di frode, messo in dubbio l’imparzialità del Jne (Jurado Nacional de Elecciones) e lanciato l’allarme sulla «minaccia di uno dei partiti» di provocare un caos sociale in caso di sconfitta. Tra loro c’è anche il nonagenario ex presidente Francisco Morales Bermúdez, condannato all’ergastolo nel 2017 dalla Corte d’Assise di Roma nel processo contro il Plan Condor.