Veronika Mendoza e Keiko Fujimori: due donne, due progetti di paese, il primo rivolto al futuro (la sinistra del Frente Amplio), il secondo al passato (l’estrema destra del Partido de Fuerza Popular). Le due anime opposte del Perù, che domani va alle urne (23 milioni gli aventi diritto) per scegliere il presidente che prenderà il posto di Ollanta Humala, il primo e secondo vicepresidente, 130 parlamentari e 15 rappresentanti al Parlamento Andino: per un periodo di cinque anni. Sarebbe la prima volta di una donna alla presidenza del paese.

I sondaggi dicono che, fra i dieci candidati, solo tre hanno più titoli per passare al secondo turno, giacché nessuno sembra totalizzare la metà più uno dei voti validi: anche considerando che, in base ai dati delle precedenti elezioni, i peruviani manifestano la propria protesta invalidando il voto. Secondo le inchieste, dal 2006 al 2014, la fiducia dei cittadini nei partiti politici è scesa dal 16,4% al 9,9%.

Fujimori, con la sua proposta che promette un mix di neoliberismo spinto e di assistenzialismo, è data al 37,1 %. Seguono, con un punto di differenza, Pedro Pablo Kuczynski, di Peruanos Por el Kambio, con il 15,1% e Mendoza con il 15%. Una percentuale, però, in crescita per la candidata si sinistra, anche dopo l’emergere dello scandalo dei Panama papers, che chiama in causa molti politici o persone vicine ai candidati: da Kuczynski ad Alan Garcia e Alejandro Toledo, da Virgilio Acuna (fratello di Cesar, un candidato escluso), al finanziatore della campagna di Keiko Fujimori, Jorge Sasaki. Tutti, naturalmente, smentiscono. Smentisce di avere azioni in una società di comodo nei paradisi fiscali ideati dallo studio legale panamense Mossack-Fonseca anche lo scrittore Vargas Llosa, che sostiene Kuczynski.

Ex ministro dell’economia di Toledo, poi premier ed ex banchiere, e in seguito consulente dell’impresa Hunt Oil, Kuczynski ha una proposta di centro-destra, è

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gradito agli imprenditori e potrebbe raccogliere i consensi sia di chi ha paura del ritorno al fujimorismo, sia di chi teme l’arrivo delle sinistre. «Per la prima volta dagli anni ’70, quando la sinistra aveva il 30%, siamo riusciti a unire tutti i rivoli nel Frente Amplio con una proposta minima ma alternativa», dice al manifesto Moises Rocha, responsabile del settore Esteri per il Partito comunista peruviano. «Purtroppo – aggiunge – nel paese dominano le destre. Le promesse di Humala sono state disattese. Le forze conservatrici premono in tutta l’America latina, dopo l’Argentina, vogliono destabilizzare il Venezuela e il Brasile. In Perù, la crescita del 3,26% ha portato vantaggi più alle grandi imprese che ai settori popolari. E la situazione sarà peggiore con l’Alleanza del Pacifico di cui il Perù e uno dei perni. Aumenteranno le basi militari oltre alla IV Flotta e a quelle che già ci sono». Il problema è che «i comunisti, dopo il duro scontro armato degli anni ’70 e i guasti prodotti da Sendero Luminoso, sono stati demonizzati, diventando sinonimo di terrorismo. Ora stiamo rimontando la china, ricreando nuovo consenso nel paese».
Mendoza vorrebbe arrivare a un’Assemblea costituente e a misure di cambiamento strutturale capaci di portare giustizia sociale, ed è contraria sia alla logica neoliberista del Tpp, sia a quella delle basi militari e del pugno di ferro per combattere “l’insicurezza”, cavallo di battaglia degli altri candidati. Ollanta Humala aveva ricevuto l’appoggio aperto dell’allora presidente del Venezuela, Hugo Chavez. Mendoza si è recata varie volte in Venezuela e, per tutta la campagna elettorale è stata tormentata dai giornalisti perché prendesse le distanze dal Venezuela bolivariano. Ma, dalla Spagna (Podemos) al Cile (Camila Vallejo), dall’Ecuador alla Bolivia, all’Argentina, movimenti e forze di sinistra hanno espresso il proprio augurio a Mendoza.
Per Democracia directa corre anche Gregorio Santos, ex governatore di Cajamarca che ha fatto campagna dal carcere, dove si trova per aver appoggiato le lotte ambientaliste.

Tutti i candidati hanno riassunto le proposte a chiusura di una campagna segnata da esclusioni e denunce e da grandi manifestazioni contro il ritorno del fujimorismo, incarnato dalla figlia del dittatore Alberto Fujimori. Il 5 aprile è scesa in piazza tutta la sinistra. In quella data, nel 1992, con l’appoggio delle Forze armate, Fujimori proclamò un autogolpe e dissolse il Parlamento. Era andato al governo due anni prima con lo slogan «Lavoro, onestà, tecnologia». In pochi anni, ridusse alla fame mezzo paese e lo tenne sotto la morsa di una feroce repressione dando mano libera agli squadroni della morte come il gruppo Colina. Negli anni ’90, fece sterilizzare in modo fraudolento 272.000 donne e 22.000 uomini. Il 6 novembre del 2001, il Parlamento peruviano ha accusato Fujimori – fuggito l’anno prima in Giappone per sottrarsi a un’accusa per corruzione – di crimini contro l’umanità: per i delitti commessi dal gruppo Colina tra il ’91 e il 92. Venne arrestato in Cile nel 2005 e estradato in Perù nel 2007. Ora sta scontando una condanna a 25 anni.

Pablo Kuczynski ha promesso che, se viene eletto, firmerà una legge per permettere all’ex dittatore di scontare il resto della pena agli arresti domiciliari «al pari di altri della sua età». Una proposta che di certo non riguarderebbe i prigionieri politici delle guerriglie di sinistra…
Di fronte alla mobilitazione di una ventina di città che hanno risposto all’appello del collettivo “No a Keiko”, la candidata ha dovuto sospendere la campagna elettorale. Recentemente, ha promesso di non ripetere «gli stessi errori» del padre e anche di dare continuità al lavoro della Commissione per la verità e riconciliazione. E’ la quinta volta che la quarantenne si candida alla presidenza. Questa volta ha promesso di realizzare il paese di bengodi. Ma, all’ultimo minuto, anche la sua candidatura potrebbe essere invalidata per via di un ricorso di aver infranto la legge offrendo soldi durante un evento elettorale.
L’Osa ha inviato nel paese 79 osservatori elettorali.