Non c’era alcuna possibilità, quando nel 1996 comparve il primo libro dei racconti di George Saunders, che l’allora sconosciuto scrittore americano passasse inosservato. E tuttavia gli si farebbe un torto se si attribuisse allo shock dei materiali convocati sulle sue pagine la fama che subito acquisì, sebbene presso un pubblico molto ristretto, disposto a sorbirsi tanta inquietante sgradevolezza pur di intrattenersi con una voce così singolare.

Certo, l’ambientazione straniata dei racconti che uscirono – tra l’altro, sotto un titolo poco allettante e difficile da ricordare, Declino delle guerre civili americane – ebbe la sua parte, perché quasi tutti i racconti si svolgevano in un Parco a Tema, ossia in uno di quei mondi alternativi all’esistente che stavano spopolando tra turisti piccoloborghesi di tutte le nazioni e dove, a dispetto della curiosità che suscitavano, nessun lettore di Saunders avrebbe gradito essere sorpreso a circolare.

Ma era la stupefacente immaginazione dell’allora trentottenne scrittore americano a lasciare interdetti, ed era la sua capacità di esagerare fino al parossismo le situazioni inventate, senza tuttavia portare il lettore a distaccarsene disgustato, a rivelare una speciale attitudine alla giusta misura degli effetti da erogare. Nonostante l’abuso di situazioni limite che affollano i racconti di Saunders, la reazione non è – infatti – quella di allontanare la pagina bensì di restarvi incollati, e il segreto sta nel dosaggio ammirevole della sua ironia vigile e amara, e nella abilità di fare accettare come verosimile – in quanto corrispondente alla logica interna della storia del tutto incredibile che vi trovate sotto gli occhi – fatti, situazioni, cinismo e crudeltà che non si pensava la mente umana potesse concepire.

Forse la concentrazione più clamorosa dell’inventiva di Saunders si trova nel racconto che dà il titolo alla raccolta ora pubblicata da minimum fax, Bengodi (pp. 213, euro 16,00) , dove si riprende l’edizione Einaudi del libro uscito nel 2005 con il titolo Declino delle guerre civili americane, mantenendo la stessa traduzione, difficilissima e ottimamente riuscita, di Cristiana Mennella, e aggiungendo una divertente nota autobiografica, nonché il racconto con cui Saunders esordì (sebbene in una stesura precedente) nel 1986 sulla «Northwest Review», che portava come titolo «Mancanza d’ordine nella Sala dell’Oggetto Galleggiante». Non è il titolo di un’opera di Marx Ernst ma potrebbe esserlo.

Entriamo a «Bengodi»: qui il mondo si divide in una stragrande maggioranza di Difettosi, che sono in possesso di qualche magagna fisica di variabile entità, e in pochi Normali, implicitamente autorizzati a vessare i più sfortunati. Il set è un mondo artificiale precipitato nel Medioevo, dove ai «meritevoli» è consentito non solo vivere in una epoca diversa dalla loro ma di impersonare ruoli più confacenti alle proprie ambizioni, con il corollario garantito di un certo numero di eventi a alto tasso di perversione. Per essere «meritevoli» basta pagare, è ovvio.

La voce narrante esordisce come Brigante seduttore, il cui compito è saltare fuori sul più bello e rubare alle signore i gioielli finti che hanno ricevuto all’ingresso. Fa parte del programma l’obbligo di lanciare occhiate lascive alle loro scollature. Tutto sommato, l’incarico del Difettoso signor Cole non è dei peggiori; ma la situazione precipita quando il finto Brigante assiste a una violenza carnale perpetrata su sua sorella, peraltro consenziente. Preso dall’ira, Cole comincia a lanciare sassi sulla testa dello stupratore, che nel ruolo di un re sta obbligando la sorella a rivolgerglisi così: «Le vostre aspre parole mi atterriscono, sire». Quel «sire» a voce alta, per favore.
In seguito all’immancabile rapporto sulla sua condotta, Cole viene declassato a Tavolante, non prima di essere sottoposto a un terribile interrogatorio che si conclude con la esibizione del suo difetto: un paio di artigli al posto dei piedi. Da allora il suo compito sarà portare un vassoio con gli affettati ai partecipanti all’OrgiaSicura, che si accoppiano su un letto a forma di cuore, incellophanati in un enorme profilattico.

Così Cole si è messo nei guai per difendere l’onore di sua sorella, che non solo farebbe tranquillamente a meno del proprio onore ma non vede l’ora di recuperare le attenzioni di quel riccone, un magnate delle fosse biologiche, che si appresta a riscattarla dal lager pirotecnico del Parco a Tema per portarla nel suo ranch texano. Anche la sorella di Cole è una Difettosa, ha una piccolissima coda vestigiale che le è già valsa l’abbandono di un uomo al quale teneva, ci teneva così tanto che rischiò di rovinarsi a forza di scatravetrare quel codino.

Dopo grandi lacerazioni e strazianti dubbi – «Che faccio? Me ne vado sul serio? Sacrifico la mia sicurezza personale, il mio sistema di riferimento, i miei pochi trascurabili amici, il mio lavoro, il mio pane quotidiano, la mia salvezza, una vita di ricordi? Mi tremano le ginocchia. Mi viene da vomitare…» – Cole varca il muro che delimita il luogo in cui è stato umiliato per tutta la vita e approda nel mondo vero, dove a attenderlo si ci sono bande di teppisti, diseredati invidiosi delle garanzie che credono vigenti al di là dal muro, criminali pronti a uccidere per marcare il territorio. E finalmente liberato dalle proprie catene mentali, viaggia attraverso campi di grano incendiati, vede Chicago martoriata dalla peste, con i cadaveri ammucchiati sui terreni sfitti, attraversa lo stadio di baseball di Comiskey, ridotto a un carcere all’aperto, e si inoltra nelle «pianure dove figure vestite di stracci vagano solitarie all’orizzonte, ricordandomi la mia maledetta famiglia».

Brevissima, la digressione apocalittica ricorda vagamente La strada di Cormac McCarthy, ma se lì, tra desolazione, morte e rovina, ci sono ancora un padre e un figlio uniti da sentimenti condivisi, qui tra le pagine di «Bengodi» è tutto un tripudio di disgrazie, varopinte e fantasiose, una fiaba parossistica dove nessuno, se non la voce narrante, può vantare sentimenti altruistici.
Saunders cominciò a familiarizzarsi con questa specie di comici orrori mentre lavorava nella sede della Radian Corporation di Rochester, strappando le ore alla stesura di un resoconto tecnico sulla contaminazione delle acque sotterranee. Alle spalle aveva un master di creative writing presso l’Università di Syracuse e svariati aborti narrativi, tra cui la rielaborazione dell’Armata a cavallo di Babel’ ambientata nel giacimento petrolifero indonesiano dove aveva lavorato, e la riscrittura di In Our Time, la prima raccolta dei racconti di Hemingway, trasferiti a Amarillo. Da quelle imitazioni, ebbe poi a dire, Saunders trasse la convinzione che «non esiste una realtà obiettiva», bensì solo la versione che ne forniamo noi. Mise piede nel primo Parco a Tema già nel 1969, si chiamava Sei bandiere sul Texas e si trovava nei pressi di Dallas: l’attrazione per quella second life fu immediata e fruttifera, tanto che Saunders si propose di costruirne un modello in scala; ma poi, quel che ne venne fuori fu, appunto, questa sua prima raccolta di racconti, scritta lentissimamente, mentre con una laurea in ingegneria continuava a lavorare come tecnico quando non a perdere tempo dietro la fotocopiatrice.
A distanza di anni, il suo mood di allora, benché sentimentalmente appagato, lo riassume in un frase presa a prestito da Terry Eagleton: «il capitalismo spoglia il corpo della sua sensualità».E anche la natura fantasmagorica delle sue ambientazioni, con tutti gli incredibili incidenti che avviliscono la già mortificante vita dei suoi personaggi, maturò insieme al convincimento per cui «la massima aspirazione dell’arte è far vedere che non è vero niente e che è vero tutto».

Ciò che, fra l’altro, rende irresistibili i racconti di Saunders è la rappresentazione della cialtronaggine umana a dispetto dell’efficienza richiesta quando si pretende di arricchirsi a forza di business. Nel primo racconto, «Terra della guerra civile in grave declino», il protagonista che parla in prima persona è un Ispettore alla Verosimiglianza, smaliziato, critico, perfettamente consapevole del bluff gigantesco cui partecipa ma deciso a servirlo fino in fondo, il quale vigila affinché i visitatori, catapultati in una specie di astronave che li porta diritti al 1865, non si accorgano di tutti gli errori storici disseminati nel Parco.

Anche nel più vecchio dei racconti di Saunders, «Il fabbricaonde insicuro», il protagonista è un impiegato ai controlli: peccato che per la sua negligenza un bambino si ritrovi maciullato dalle onde artificiali perché le viti dello schermo protettivo non erano state registrate a dovere. L’inserviente ingaggiato nel racconto «La fallita campagna di terrore della disgraziata Mary» inaugura le sue giornate sgobbando al Castello Fatato di Liana nei Secoli dei Secoli: spegne le luci di servizio e si accendono automaticamente le stelle finte, ma questo punto la luna va regolarmente in corto; non importa, aggiustarla costerebbe troppo. Sia quel che sia, da questi mondi non si esce, e se lo si fa – come accade in «Bengodi» – c’è il caso che ci si debba pentire.

«La narrativa – disse Saunders a Ben Marcus, che immediatamente dopo il suo esordio lo intervistò per “The Believer”– è per sua natura un processo di distorsione, esagerazione e compressione… quello che io trovo stimolante è l’idea che nessuna opera di invenzione potrà mai neanche avvicinarsi a «documentare la vita». E dopo questa professione di sfiducia nel realismo, che quasi nessuno scrittore sarebbe disposto a sottoscrivere, continuò così: «secondo me, dalla fruizione di un’opera d’arte si esce non istruiti, ma perplessi, perplessi in un modo che ci rende più umili e ci fa muovere con più attenzione (ma anche con più pienezza) dentro la nostra vita, almeno fino a che non svanisce l’effetto».