Sul farsi: com’è rivelatore il titolo che Tullio Pericoli ha voluto dare a una serie di lavori realizzati tra 2018 e 2019 e presentati in una sala della mostra milanese di Palazzo Reale (Frammenti, a cura di Michele Bonuomo, fino al 9 gennaio, catalogo Skira). Si tratta di una serie di acquerelli, tutti quadrati e delle stesse dimensioni, 60 per 60 centimetri. Sono naturalmente dei paesaggi, con la costante a lui famigliare del punto di vista aereo e della linea di orizzonte altissima, portata al limitare della carta. Ci sono dei segni che evocano un linguaggio in codice: piccoli tratti «pettinati» come i campi arati, pittogrammi allineati come filari di piante, macchie liquide di verde che rimandano al profumo tenero della primavera. Qualche volta l’acquerello s’allunga in scie di un rosso improvviso, intriso della luce dolce dei tramonti.
In mostra troviamo allineate una ventina di queste carte, ma la numerazione rivela quanto il ciclo sia più ampio: c’è infatti anche un Sul farsi, 65. Siamo di fronte a pittura in incubazione; pittura che si mette sulle tracce del proprio momento germinale, in quel punto in cui le forme sono fluide e le relazioni visive s’intrecciano come embrioni di poesia. Il titolo ha qualcosa di programmatico, insolito in Pericoli. Ci parla di uno scavo o di una meditazione attorno a quel nesso misterioso che si stabilisce tra paesaggio e pittura. L’aver scelto il verbo in forma riflessiva, ci dice che per Pericoli, per dipingere un paesaggio, non basta inseguirne e trasfigurarne forme, linee e colori. Non basta neppure decifrare o mappare quel che accade sotto la pelle della terra. Per dipingere un paesaggio bisogna mutuare quella fiducia nella realtà e nella natura che si fonda sui ritmi dei giorni e delle stagioni. Sul farsi vuole essere uno sguardo all’interno della propria pittura, un osservatorio rispettoso e quasi stupito sulla sua genesi, che è genesi più desiderata che calcolata: «Non dipingo paesaggi per fare paesaggi», confessa Pericoli. «Li dipingo soprattutto per il piacere di dipingere. E di fare un quadro dopo l’altro».
Il paesaggio di Pericoli nasce palesemente dalla relazione profonda con un’origine, con l’imprinting visivo ed esistenziale delle geometrie delle colline marchigiane, della loro docilità e grazia. È un legame affettivo la cui intensità si misura con questo senso di infinità seriale dei lavori, chiamati a comporre idealmente enormi arazzi che si depositano come una seconda pelle sul paesaggio privato di Pericoli. Nei suoi processi lavorativi il plein air non è contemplato. Le visioni vengono esportate nello studio e il loro incessante farsi opere diventa una necessaria compagnia nella vita di ogni giorno.
In questo processo s’innesta poi un’altra azione che Pericoli, con assoluto candore, definisce rubare. «Questa mostra contiene moltissimi furti», scrive nei ringraziamenti sul catalogo. E poi aggiunge: «Ma i derubati avranno davvero subito un danno? Si saranno dispiaciuti dei furti subiti?». La teoria dei nomi dei «derubati» è a maglie larghe e compone una catena prima affettiva che intellettuale. Ci si può sbizzarrire a ricucire i fili di queste relazioni, partendo naturalmente da quelle originate da una prossimità territoriale. Si riconoscono gli automatismi grafici delle fotografie di Giacomelli, come pure le proiezioni sognanti di Osvaldo Licini: in tutt’e due i casi il paesaggio porta allo scoperto un magnetismo sempre riconoscibile e famigliare. Ci sono anche apparentamenti letterari come quel senso di devozione alla vita del mondo dei versi, sempre marchigiani, di Francesco Scarabicchi.
Se invece, in questo gioco a cui Pericoli stesso ci chiama, ci inoltriamo in terre più lontane (solo apparentemente lontane) viene spontaneo il riferimento a quei reiterati tatuaggi pittorici che William Congdon, negli ultimi suoi anni, aveva realizzato sulle geometrie dei campi della Bassa Milanese. Se ci allontaniamo ulteriormente, vediamo affiorare l’impronta delle meravigliose celebrazioni del suolo che Jean Dubuffet aveva impresso sulla carta dei suoi Phénomènes, oltre trecento litografie per comporre una cosmogonia della terra. Nel ritmo compositivo dei paesaggi di Pericoli ci sono gli echi del suo amore per Paul Klee; i grafismi che solcano le tele come le carte riportano invece alla delicatezza di Gastone Novelli.
Il farsi dei paesaggi di Tullio Pericoli è dunque l’esito di tante convergenze affettive portate allo scoperto, che finiscono con il conferire a queste meditazioni, nate come personali e quasi private, un afflato civile. Non è un caso che tra le matrici visive delle sue opere ci sia quella sorta di prototipo assoluto che è il paesaggio della campagna senese nel Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti.
E non è un caso che il passaggio dalle sale dei paesaggi a quella finale con i suoi popolarissimi ritratti di scrittori venga percepito come un passaggio senza soluzione di continuità. Certamente i solchi sulla pelle così intensamente vissuta dei suoi personaggi richiamano i solchi che disegnano il terreno delle colline. «Segmenti rivelatori di un volto, colti al rallentatore ora planando alto sulle nuvole, ora sostando su una collina, ora immergendosi in un campo coltivato», li ha perfettamente definiti Salvatore Settis. Sono segni sempre amorevoli, che esprimono una forma di devozione nei confronti della realtà; devozione che abbraccia i paesaggi visti e amati dalle finestre della casa natale di Colli del Tronto, e abbraccia allo stesso modo le pagine scritte, le parole e i volti degli intellettuali ai quali dedica le sue meditazioni in forme di ritratti.
L’arte di Pericoli è un’esperienza di autoeducazione alla realtà che tracima dall’ambito personale e diventa, con la delicatezza che gli è propria, un invito allargato a tutti. Per questo, senza nessun calcolo, prende una forma di pittura civile, svuotata di ogni retorica e colmata invece di un senso sincero di gratitudine verso la vita.