Shimon Peres ha davvero cercato la pace con palestinesi e arabi o ha venduto l’illusione della pace. Questo interrogativo potrà apparire ingeneroso nei riguardi dell’ex presidente israeliano morto martedì notte all’età di 93 anni, un personaggio politico di fama mondiale, per decenni acclamato alfiere della pace. Eppure è legittimo. Perché Peres “la pace” l’ha dispensata in ogni angolo del mondo, spiegata alle conferenze internazionali, illustrata al Forum di Davos, scritta nei libri, racchiusa nel Centro di Tel Aviv che porta il suo nome, ma non l’ha mai realizzata. Certo quell’obiettivo dipendeva anche da altri. Ma anche da lui quando ha svolto i massimi incarichi istituzionali e politici di Israele. Aver proposto per 40 anni l’immagine di uomo di pace e del dialogo mentre il suo Paese costruiva illegamente colonie nei Territori, teneva sotto occupazione militare milioni di palestinesi, non rispettava le risoluzioni dell’Onu, veniva condannato per violazioni dei diritti umani e si appropriava unilateralmente di tutta Gerusalemme, non può non riproporre il nostro interrogativo: Shimon Peres ha cercato la pace o parlando di pace ha voluto prima di tutto ingentilire l’immagine di Israele agli occhi del mondo?

“Colomba” peraltro Peres lo era diventato solo verso i 50 anni di età dopo essere stato un “falco”. Nato in Polonia nel 1923, immigrato con la famiglia a Tel Aviv nel 1934 e cresciuto nei kibbutz, da giovanissimo entrò in contatto con i massimi leader israeliani tra i quali il “padre della patria” David Ben Gurion. Ebbe brevi e poco significative esperienze militari ma ciò non gli impedì di ottenere incarichi di prestigio in questo settore. Nominato direttore generale del Ministro della Difesa nel 1953, svolse un ruolo decisivo nell’acquisto di armi e nello sviluppo del programma nucleare nazionale, grazie alla collaborazione della Francia. E’ stato di fatto “il padre” della bomba A israeliana e il teorico della cosiddetta “ambiguità” nucleare: non ammettere e non negare il possesso di ordigni atomici. Un segreto che ha difeso autorizzando il Mossad nel 1986 a rapire, a Roma, il tecnico nucleare Mordechai Vanunu, che aveva rivelato alla stampa internazionale le vere produzioni di Dimona. Peres cominciò a mostrare una predisposizione al negoziato e al compromesso con nemici e avversari a partire dalla fine anni 70, dopo il Trattato di Camp David tra Israele e l’Egitto. In precedenza aveva piuttosto manifestato sostegno alla prima fase della colonizzazione ebraica dei Territori palestinesi occupati nel 1967, anche allo scopo di mettere in difficoltà il premier e suo storico rivale nel partito laburista, Yitzhak Rabin (assassinato nel 1995 da un nazionalista ebreo). Non a caso è finito poche volte nel mirino il movimento dei coloni israeliani.

Peres raramente è stato premiato dalle urne a conferma che la sua retorica pacifista, che tanto affascinava l’Occidente, non era aderente alla realtà di un elettorato poco favorevole al compromesso territoriale con i palestinesi, tranne che nei due anni successivi alla firma degli accordi di Oslo del 1993. E il nome di Peres resterà legato senza alcun dubbio proprio a quelle intese di cui fu l’artefice con Yitzhak Rabin e Yasser Arafat e che gli valsero il premio Nobel per la pace nel 1994. La “Pace di Oslo” fu il palcoscenico principale della sceneggiatura pacifista dell’ex presidente israeliano. Fu l’illusione collettiva di una conclusione negoziata del conflitto sulla base del principio “Due popoli, due Stati”. 23 anni dopo gli accordi di Oslo si sono rivelati una prigione per i palestinesi e non, come si disse, l’autostrada per lo Stato di Palestina e il benessere.
Peres non ha esitato a scegliere la strada della guerra, anche da premio Nobel della pace. Nella primavera del 1996, nel tentativo (fallito) di sbaragliare Netanyahu e di conquistare consensi a destra, lanciò una vasta offensiva militare nel Libano nel sud – ufficialmente in risposta ai lanci di razzi compiuti dai guerriglieri sciiti di Hezbollah – culminata il 18 aprile nel massacro di Qana, quando fu bombardata per “errore” una base delle Nazioni Unite in cui si erano rifugiati circa 800 civili. Razzi e bombe uccisero almeno 102 persone, tra le quali donne e bambini.

Primo ministro per brevi periodi, Peres è stato soprattutto un ministro degli esteri di successo, molto stimato all’estero e poco in patria. Nel 2005 appoggiò il ritiro di soldati e coloni israeliani da Gaza e abbandonò il partito laburista per entrare in “Kadima”, fondato dal premier di destra Ariel Sharon. Da allora è stato un lento procedere verso l’irrilevanza politica in un Israele che si spostava sempre più a destra sotto la guida di Benyamin Netanyahu e a causa dell’ascesa degli ultranazionalisti religiosi. Tuttavia l’elezione nel 2007 a capo dello stato ha riconciliato Peres con quella porzione di Israele che non apprezzava il suo approccio morbido alle questioni di sicurezza e la sua disponibilità al dialogo con i palestinesi. Lasciata la presidenza nel 2014, Peres ha continuato ad essere attivo in pubblico fino allo scorso 13 settembre, quando è stato colpito dall’emorragia cerebrale che l’altra notte l’ha portato alla morte.

Per i palestinesi, le persone comuni più che i leader dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen, Peres sarebbe stato più dannoso della destra israeliana. Il suo pacifismo, spiegano, ha mascherato il volto intransigente di Israele senza portare ad alcun risultato per chi da decenni chiede invano libertà e indipendenza.