Si offre come una guida mitologica per chi voglia recarsi in Grecia, il libro di Giulio Guidorizzi e Silvia Romani In viaggio con gli dei (illustrazioni di Michele Tranquillini, Raffaello Cortina Editore, pp. 270, € 19,00), salvo additare subito al lettore il rischio di un «disorientamento»: di quelli, però, che inducono a smarrimenti felici. La direzione da seguire, in effetti, non sempre può essere imboccata con l’ausilio di mezzi concreti e necessita, in molti casi, l’assunzione di quella che il poeta Samuel Taylor Coleridge chiamava «volontaria sospensione dell’incredulità». Uno stato della mente del tutto provvisorio, ma indispensabile per credere a ciò che la ragione e la logica non ammetterebbero mai.
Tra le quindici tappe che informano il volume si profilano luoghi che furono visitati dalle divinità. Una delle prime riguarda l’ascesa al monte Psiloritis a Creta (raccontata da Romani) e l’accesso alla Grotta Idea, la caverna in cui Rea fu costretta a nascondere il figlio Zeus, nell’era primordiale in cui le generazioni divine si avvicendavano nel segno della violenza. Adesso, come allora, questo luogo impervio risuona del belato delle capre e del ronzio delle api, che avevano nutrito di latte e di miele incorruttibile Zeus ancora bambino. Nei racconti mitologici accade spesso che gli animali siano chiamati ad accudire dèi ed eroi provvisoriamente confinati allo stato di natura e, in qualche caso, ne sono ricompensati. La capra nutrice fu tramutata da Zeus in una stella, la più brillante della costellazione settentrionale dell’Auriga, visibile durante i mesi invernali, mentre le api furono dotate di una livrea del colore del bronzo dorato, una sorta di armatura con la quale avrebbero potuto resistere al clima rigido e ventoso dell’altura.
Il monte cretese inaugura una lunga successione di spazi geografici riconfigurati, insieme ai loro abitanti umani e non umani, dal passaggio delle divinità sulla terra. Il fatto è che in Grecia antica (come presso altre società tradizionali) il rapporto che la comunità umana intrattiene tra corpo e spazio non è solo di tipo funzionale – così accade ai nostri giorni – ma è determinato da ragioni simboliche.
Il corso d’acqua più grande del Peloponneso, ad esempio, l’Alfeo (Olimpia, raccontata da Guidorizzi), condensa nella sua natura di fiume carsico uno dei più tenaci inseguimenti d’amore del mito. Alfeo, il dio fluviale, fu capace di inabissarsi non solo nel suolo greco ma fin nel Mar Mediterraneo pur di raggiungere l’amata Aretusa, un tempo ninfa e oggi monumentale fontana adagiata sulle sponde di Ortigia, a Siracusa. Un indissolubile connubio acquatico, quello del racconto, che nei secoli dello stanziamento dei greci in Sicilia, rappresentava il più concreto legame politico stretto tra la madrepatria e la colonia. Sempre nel Peloponneso si attesta la località di Epidauro, dove Asclepio si manifestava in sogno ai malati. I sogni, che per i greci non scaturivano dalla dimensione psichica di ciascun individuo ma erano come entità esterne e autonome, venivano guidati dal dio guaritore che ne dispensava l’apparizione nel santuario della sua città natale. Il territorio di Epidauro – una sorta di «Lourdes pagana» lo definisce Guidorizzi – accoglieva i pellegrini in un dormitorio dove essi si assopivano in attesa dei messaggi onirici del dio. Al risveglio, lasciavano una testimonianza scritta della guarigione, come ancora si può leggere nelle epigrafi delle cosiddette Cronache di Epidauro. A una quercia secolare radicata nella terra di Dodona, in Epiro, si attribuiva, invece, la capacità di trasmettere le parole di Zeus. Il bisbiglio delle foglie mosse dal vento era inteso alla stregua di veri e propri messaggi anticipatori del futuro. Ancora oggi, le rovine del santuario di Zeus sono attorniate da querce e al riparo della loro ombra – precisa Romani – si può restare in ascolto del fruscio delle fronde e dei loro imperscrutabili messaggi.
Perdersi tra i sentieri del mito sembra essere una circostanza inevitabile per chi intenda attraversare – realmente o con la sola fantasia – le regioni della Grecia, e questo libro lo certifica attraverso una trama che non si compone solo di leggende. Nel frequente richiamo (anche per immagini) ai manufatti preziosi conservati nelle teche dei musei e alle architetture parziali dei parchi archeologici, lievita la memoria delle cose e del gruppo sociale che le ha fabbricate. Il passato di ogni comunità, per poter sopravvivere, si aggancia a oggetti concreti che funzionano come «figure del ricordo» (secondo i meccanismi con cui si struttura la memoria culturale). Le parole dei due studiosi risvegliano questi oggetti e ne riattivano il carico di umanità: non solo racconti affabulatorî, quindi, ma anche esperienze, aspirazioni, valori di vite tanto più interessanti quanto più differenti dalle nostre esistenze attuali.
Questo è il caso delle arcaiche sculture dette di Cleobi e Bitone, custodite al Museo archeologico di Delfi, davanti alle quali si può credere di trovarsi non davanti a inanimati simulacri di marmo ma a giovani vigorosi e bellissimi, quali dovevano essere gli efebi greci. I loro capelli sono lunghi e sappiamo che l’usanza era di tagliarli al momento del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Le chiome ricadono all’altezza del petto, come solo ornamento di una possente nudità che si addice a chi è in procinto di entrare in gara. Secondo una leggenda riportata da Erodoto (Storie, I, 31), Cleobi e Bitone avevano dato prova di grande pietà filiale e religiosa e per questa ragione gli dèi li avevano ricompensati dando loro «ciò che un uomo può ottenere di meglio», vale a dire una dolce morte senza dolore. Cleobi e Bitone si addormentarono di un sonno eterno, all’interno del tempio sacro a Era, e la loro esemplare esistenza fu immortalata in due statue, forse identificabili con quelle di cui ancora oggi possiamo incrociare lo sguardo a Delfi.
Anche i rilievi che decoravano i frontoni del tempio di Zeus a Olimpia, oggi custoditi al Museo archeologico della città, presentano figure capaci di mostrare il pensiero dei greci in azione. La parte occidentale reca scolpita la lotta convulsa tra Lapiti e Centauri, nobili guerrieri della Tessaglia i primi, uomini-cavallo i secondi, ma non solo. Nell’agire dei Centauri (che secondo il mito, durante una festa nuziale, si ubriacano e cercano di violentare le donne dei Lapiti) si profila la deriva bestiale cui andrebbe incontro l’umanità se non frenasse i suoi istinti primordiali, così come evidenziato da Guidorizzi – con la collaborazione di Marzia Mortarino – nel recentissimo Il racconto degli dèi L’origine del mondo e le divinità dell’Olimpo (Mondadori «Oscar Saggi Cult», pp. 340, € 15,00),dove ampio spazio è dedicato ai Centauri e ad altri esseri mitologici classificabili come «né dèi né uomini». La rappresentazione dello scontro, che si conclude con la vittoria dei Lapiti, fa luce su una delle riflessioni più dibattute in Grecia antica, quella della contrapposizione tra la ragione e l’irrazionale, tra la cultura e la natura.
Sempre a Olimpia, città delle competizioni sportive (che per oltre mille anni, a partire dal 776 a.C., furono celebrate in onore di Zeus), tra gli edifici ormai in rovina prende corpo un insieme di ideali molto diversi dalle motivazioni etiche delle gare odierne. Lo sappiamo dalla testimonianza di Pindaro, il più grande cantore di questi agoni. Il sentimento della sfida, l’affermazione dell’eccellenza individuale e la gloria luminosa della vittoria sono tutti valori consegnati dagli atleti alle «parole alate» del poeta. Ma Pindaro tramanda anche una più ampia considerazione di natura esistenziale e transculturale: la sconfitta inesorabile – la morte – che, presto o tardi, ogni uomo è chiamato ad affrontare.