L’Europarlamento ha approvato ieri l’ultimo tassello per il funzionamento del pilastro centrale del Recovery Fund, i 672,5 miliardi della Recovery and Resilience Facility. Sono passati sette mesi dal varo del Next generation Eu, al Consiglio europeo dello scorso luglio.

La tappa di ieri è importante, fa seguito all’adozione del budget pluriennale 2021-2027 di 1074 miliardi e alla decisione che permette alla Commissione di indebitarsi, ma ha poca influenza sui tempi per la messa in atto del piano di rilancio di 750 miliardi, che si stanno allungando pericolosamente. Ormai si parla al meglio di «fine estate».

Molti ostacoli devono ancora essere superati. I 27 paesi devono ratificare, tutti, l’aumento delle risorse proprie, per finanziare i rimborsi del mega-prestito del piano di rilancio: per il momento, solo sei l’hanno fatto (Croazia, Cipro, Slovenia, Portogallo, Bulgaria e Francia), gli altri voti nazionali sono attesi entro giugno. Non si possono escludere intoppi nei 39 voti (non votano solo i 27 parlamenti nazionali, in alcuni paesi è richiesto anche lo scrutinio di entità regionali).

La Germania dovrebbe votare ad aprile. L’Olanda dopo le legislative di marzo. E intanto, l’Ungheria di nuovo sta creando problemi: Budapest non è soddisfatta della sospensione della «condizionalità» tra versamento dei finanziamenti e rispetto dello stato di diritto, ritiene che questa condizione sia contro i Trattati e sembra avere l’intenzione di fare appello alla Corte di Giustizia della Ue. Ha tempo fino al 4 marzo.

Se farà questa mossa, possono esserci reazioni negative nei paesi più attenti al rispetto dello stato di diritto (Svezia, Olanda), che guarda caso coincidono in ampia parte con i «frugali» che hanno accettato obtorto collo le condizioni del piano di rilancio e la ripartizione tra sovvenzioni (390 miliardi) e prestiti (360). Nel voto dei parlamenti nazionali potrebbero così venire fuori «condizioni» per l’approvazione definitiva, per esempio il completo rispetto della condizionalità sullo stato di diritto e chiarezza sui casi di corruzione.

Su questo fronte l’Ungheria è di nuovo al centro, ha problemi con l’Olaf, l’Ufficio europeo della lotta antifrode, il 26 gennaio la Commissione ha chiesto a Budapest una riforma del codice degli appalti pubblici, vittima di «irregolarità sistematiche» secondo Bruxelles. Significa un ulteriore allungamento dei tempi.

I 27 devono presentare alla Commissione i piani nazionali entro il 30 aprile. Per il momento, 18 paesi hanno presentato le bozze. I piani dovranno essere approvati dalla Commissione e poi sottoposti al voto, a maggioranza qualificata, del Consiglio. Devono rispettare delle regole: 37% dedicato alla lotta al riscaldamento climatico, 20% di investimenti nel digitale, riforme per favorire la coesione economica, sociale e territoriale, la resilienza istituzionale, i diritti sociali, che significa, tra l’altro, modernizzazione delle amministrazioni pubbliche e investimenti per i giovani.

Sul digitale, la Commissione auspica che Next Generation Ue serva a costruire un’Europa delle nuove tecnologie, per recuperare il terreno perso in chips, supercomputer, cloud rispetto a Usa e Asia. Per quanto riguarda la transizione energetica, ci sono già bracci di ferro. La Ue, che rigetta carbone e lignite, non esclude che parte dei fondi vadano a favore del gas e persino delle autostrade, se inseriti in un progetto coerente verso la decarbonizzazione, per arrivare all’obiettivo di una neutralità carbonio nel 2050. Per la Polonia, per esempio, la transizione attraverso il gas risulta indispensabile.

La Commissione pubblicherà a breve le linee-guida sul principio Dnsh («Do not Significant Harm») per il livello di accettazione delle energie di transizione (il mix energetico è di competenza degli stati).